lunedì 6 giugno 2016

Il Santuario rupestre di Demetra in loc. Macchia delle Valli (Vetralla, Vt)

La Demetra ritrovata
L

Dei templi etruschi, soprattutto a causa della deperibilità delle strutture portanti, possediamo purtroppo pochi resti, e per lo più limitati ai muri di fondazione e alle terrecotte architettoniche che  ne decoravano la copertura. Per ricostruirne l’aspetto ci si è spesso avvalsi di modellini votivi fittili, o della descrizione fatta da Vitruvio nel De Architectura. Questa documentazione, però, può essere utilizzata quasi esclusivamente per gli imponenti complessi templari urbani, mentre risulta molto meno applicabile ad una architettura sacra “minore”, dai tratti più originali e autoctoni, che trovava una sua applicazione e un suo utilizzo nei piccoli centri e soprattutto nelle campagne d’Etruria. Di recente però , una scoperta sensazionale, quanto inaspettata, ha gettato nuova luce su questo aspetto sicuramente non marginale e secondario della religione degli Etruschi.
L'ingresso alla grotta come si presenta oggi
Nella primavera del 2006, a seguito di una segnalazione da parte dei Carabinieri di scavi clandestini, la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, ha eseguito uno scavo di emergenza, diretto dall’Ispettrice M.G. Scapaticci, in località Macchia delle Valli, nel territorio di Vetralla (VT), in prossimità di una grotta naturale e di un’antica sorgente d’acqua, elementi, in antico, già di per se qualificanti in senso sacro un’area, e spesso associati a culti di divinità ctonie (sotterranee). La zona si presenta ancora oggi  dal punto di vista ambientale molto suggestiva. Si raggiunge percorrendo un sentiero costeggiato da un  boschetto di cerri e querce, che rivela, con le sue tagliate, l’antica origine etrusca.
La via cava che conduce al santuario
L'’area è stata utilizzata nel corso dei secoli come cava di peperino, un’attività che ha interessato in passato tutto il comprensorio, e da cui deriva il toponimo “Pietrara” dato alla piccola frazione che si trova nelle vicinanze. Il luogo era noto agli archeologi soprattutto per i resti di una cisterna romana, e ai locali per la presenza di un bel fontanile, ormai prosciugato, conosciuto con il nome di Fontana Asciutta. In questo ambito, naturalmente predisposto ad un contatto con il divino, l’indagine della Soprintendenza ha consentito di riportare alla luce i resti di un santuario, di epoca etrusco-romana, dall’articolata planimetria. All’interno di una cavità rupestre, chiusa in epoca moderna da un muro per essere trasformata in ricovero agricolo, è stata individuata una piccola cella cultuale, lunga circa due metri e larga poco più di un metro, costruita con grandi blocchi di peperino, sfuggita miracolosamente all’attività di scavo clandestino. Il sacello ha eccezionalmente restituito gli arredi di culto e la statua in terracotta di una divinità femminile. Date le condizioni estreme dell’intervento, dovute all’esiguità dello spazio in cui operare, si è proceduto con un metodo molto singolare, ovvero smontando i lastroni della copertura a doppio spiovente della cella, e rimuovendo l’interro dall’alto. 
Il tetto del tempietto
Il piccolo edificio, che dal punto di vista architettonico richiama i modelli votivi del tipo a oikos (casa) , era stato inserito in una fessura della roccia, come a costituire un tutt’uno con quella cavità naturale, che probabilmente era stato la prima e più semplice dimora della divinità. Non sono state rinvenute decorazioni pittoriche all’interno, ma un sobrio intonaco color crema. Molto elaborata è risultata la struttura della copertura, con un timpano al centro del soffitto, decorato su entrambe le facce da un disco scolpito a rilievo, e un secondo timpano, con stesso motivo decorativo, impostato sulla fronte del sacello. A ridosso della parete di fondo della cella, sopra un banco monolitico di peperino, è stata trovata adagiata, ancora nella sua posizione originaria, la statua di culto, identificabile, per la sua iconografia, con la Demetra dei Greci, assimilata all’etrusca Vei e venerata poi dai Romani come Cerere. Il simulacro, datato al III secolo a.C., in terracotta, in origine dipinta, è di piccole dimensioni (alto circa 50 centimetri)), e rappresenta la dea in trono, che tiene nella mano destra una patera umbilicata, mentre nella sinistra, mancante di alcune dita, doveva sorreggere un mazzo di spighe, oggi disperso. Indossa un chitone con alta vita, tipicamente italico, e un mantello (himation) che dalla spalla destra sale verso la testa e la ricopre. Sullo stesso bancone è stata ritrovata una testina femminile fittile, forse attribuibile alla divinità che solitamente è collegata al mito di Demetra, vale a dire sua figlia Kore (Persefone o Proserpina). L’aspetto dell’introduzione di elementi di culti greci sul sostrato indigeno etrusco è sempre stato al centro dell’interesse di molti studiosi. L’etrusca Vei , il cui culto è stato documentato in vari contesti d’Etruria, soprattutto centro-meridionale, si configura come una divinità fortemente autoctona, dai caratteri che in genere si pongono nella sfera femminile, come la riproduzione, e in quella dei passaggi di status , che si estendono anche al passaggio tra città e campagna, e a quello tra la vita e la morte. Demetra è nota in Etruria sin dal VI secolo a.C., come attestano i vasi greci con sue raffigurazioni, ma gli elementi di connotazione demetriaca del culto di Vei si fanno particolarmente evidenti a partire dai primi decenni del V secolo a.C., fino alla sostituzione del culto di Demetra a quello della divinità indigena, così come documentato dal santuario di Macchia delle Valli.
La statua della Demetra
 Lo scavo all’interno del sacello, ha portato anche al rinvenimento, al centro della parete destra, di un tavolino rituale, sotto il quale erano stati deposti, in posizione rovesciata, forse proprio a sottolineare il carattere sotterraneo del culto praticato, alcuni reperti di ceramica. Su un piccolo altare di peperino, è stata infine recuperata una moneta di bronzo, un asse di Domiziano, emessa dalla zecca di Roma nell’anno 86 a.C., ma che dall’usura rivela una lunga circolazione. La moneta data perciò tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. l’ultima fase di frequentazione della cella. Tra questa e la grotta, un’ area all’aperto, costituiva una zona di passaggio (antecella) di grande  importanza per il culto. Qui è stata rinvenuta una base di peperino, usata come sostegno per un  strano e suggestivo donario di argilla, incompleto, a forma di torso umano, di modestissima fattura, rappresentante forse un embrione umano, allusivo quindi alla fertilità che qui si veniva a propiziare.
La sala del Museo Nazionale della Rocca Albornoz di Viterbo interamente dedicata al Santuario di Demetra

Lo scavo eseguito in grotta ha consentito il recupero di ceramica e votivi di epoca etrusca e romana. Un lastrone staccatosi dalla parete rocciosa, e adagiatosi in posizione pressoché orizzontale sopra la cavità naturale, era stato utilizzato in antico come “terrazza” di culto, con apprestamenti atti alla celebrazione del rito: libagioni verso la cella, che si disperdevano poi nella terra. Anche nell’anfratto sottostante questa terrazza e nell’area aperta prospiciente è stato recuperato numeroso materiale votivo.  
La "terrazza" cultuale del Santuraio

Le caratteristiche dei reperti rinvenuti in tali depositi, con prevalenza di ex voto anatomici, soprattutto uteri, ma anche piedi, teste, gambe, e l’associazione con statuette di argilla rappresentati figure femminili (tanagrine), indirizzano il culto qui praticato verso la sfera della fecondità e della guarigione (sanatio). Nei pressi della grotta si sono inoltre raccolte importanti testimonianze dei riti svolti, legati alla presenza dell’acqua, che veniva raccolta in una vasca monolitica in peperino e poi riutilizzata in un labrum (bacino) lapideo per cerimonie lustrali.
Reperti rinvenuti all'interno del Santuario (a destra "embrione umano" ? )


Per la sua collocazione extraurbana, rispetto agli antichi insediamenti noti nel territorio vetrallese, il complesso si configura sicuramente come un santuario di campagna, connesso ad un contesto sociale rurale e frequentato prevalentemente da un ceto contadino. In base alla datazione del materiale recuperato è possibile datare la frequentazione dell’area tra la fine del IV secolo a.C e gli inizi del II secolo.
Per quale motivo il santuario rupestre di Macchia delle Valli venne abbandonato? Un evento bellico? Un’epidemia? O forse il prosciugamento della sorgente d’acqua? Quel che è certo è che l’abbandono fu voluto e intenzionale, infatti  tutta l’area venne occultata e sigillata con un consistente strato di residui di cava, lasciando intatte solo cella e antecella, e spargendo in varie zone, le più significative del santuario, una grande quantità di una sostanza all’apparenza liquida, rilevata da uno strato nel terreno di colore più scuro. Un’ipotesi molto suggestiva vorrebbe riconoscere in questo liquido del latte, o meglio ancora il famoso ciceone, la bevanda composta da acqua, farina di orzo e menta, legata al mito e quindi al culto di Demetra.


I cavalli alati di Vetralla

Nel 2002, in una raccolta privata, conservata a Cura di Vetralla, in occasione della redazione dell’elenco e schedatura dei reperti, venne effettuata una sorprendente scoperta. Tra decine di pezzi di scarso valore scientifico venne individuato un gruppo di frammenti pertinenti ad una lastra di terracotta architettonica, in argilla rosa, con altorilievo, raffigurante una coppia di cavalli alati. Lo stile e l’elaborazione di alcuni particolari, come la posizione delle zampe, la resa degli zoccoli, delle bocche semiaperte, la ricca bardatura, la presenza di piume sulle ali, non lasciavano spazio ad alcun dubbio: si trattava dell’unica replica antica conosciuta della lastra architettonica con cavalli alati, proveniente dall’Ara della Regina di Tarquinia, simbolo stesso della città e del locale Museo Nazionale. Le dimensioni si presentano ridotte rispetto all’originale, e anche la qualità dell’opera è di livello nettamente inferiore.
I "cavalli alati" della collezione privata
Ma l’indubbio confronto con il modello tarquiniese fa dedurre l’esistenza di cartoni di riferimento che dovevano circolare nell’ambito del territorio della grande metropoli etrusca. Non bisogna dimenticare che il tempio dell’Ara della Regina è il più grande tempio etrusco sinora scoperto, ed aveva una rilevanza nazionale, risulta pertanto agevole ipotizzare che la magnifica opera che ne decorava il frontone fosse molto nota e ammirata dai contemporanei, e che esistessero nell’entroterra tarquiniese botteghe che si cimentavano in repliche, certamente più scadenti e provinciali, del celeberrimo capolavoro fittile. 
I cavalli alati di Tarquinia
Museo Nazionale Etrusco, Tarquinia (vt)
Da dove poteva provenire la copia conservata a Vetralla? Sicuramente dall’Etruria meridionale interna, dal momento che i possedimenti della famiglia che è ancora proprietaria del reperto, ricadono in questo ambito territoriale. Forse da un piccolo luogo di culto, afferente ad un centro minore del comprensorio. In occasione dello scavo del santuario di Macchia delle Valli, sono stati notati tre incassi su una parete rupestre che chiude a sud l’area cultuale, forse pertinenti all’alloggiamento di tre travi, la cui disposizione disegna la forma inclinata di un tetto. Non si può escludere che questa copertura a spiovente potesse essere funzionale ad un edificio antico. Se così fosse, non solo gli archeologi avrebbero per la prima volta la possibilità di misurare concretamente l’altezza di un tempio etrusco, ma forse ci troveremmo anche di fronte all’originaria collocazione dell’altorilievo con cavalli alati conservato a Vetralla, che quindi non si sarebbe mai troppo allontanato dal luogo per cui era stato commissionato e realizzato.  

1 commento:

  1. Bell'articolo, ci sono affinità fortissime con il sito scoperò da me a Montesenarioe Monteronzoli (Firenze)
    Paolo Campidori

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