lunedì 6 giugno 2016

Il Santuario rupestre di Demetra in loc. Macchia delle Valli (Vetralla, Vt)

La Demetra ritrovata
L

Dei templi etruschi, soprattutto a causa della deperibilità delle strutture portanti, possediamo purtroppo pochi resti, e per lo più limitati ai muri di fondazione e alle terrecotte architettoniche che  ne decoravano la copertura. Per ricostruirne l’aspetto ci si è spesso avvalsi di modellini votivi fittili, o della descrizione fatta da Vitruvio nel De Architectura. Questa documentazione, però, può essere utilizzata quasi esclusivamente per gli imponenti complessi templari urbani, mentre risulta molto meno applicabile ad una architettura sacra “minore”, dai tratti più originali e autoctoni, che trovava una sua applicazione e un suo utilizzo nei piccoli centri e soprattutto nelle campagne d’Etruria. Di recente però , una scoperta sensazionale, quanto inaspettata, ha gettato nuova luce su questo aspetto sicuramente non marginale e secondario della religione degli Etruschi.
L'ingresso alla grotta come si presenta oggi
Nella primavera del 2006, a seguito di una segnalazione da parte dei Carabinieri di scavi clandestini, la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, ha eseguito uno scavo di emergenza, diretto dall’Ispettrice M.G. Scapaticci, in località Macchia delle Valli, nel territorio di Vetralla (VT), in prossimità di una grotta naturale e di un’antica sorgente d’acqua, elementi, in antico, già di per se qualificanti in senso sacro un’area, e spesso associati a culti di divinità ctonie (sotterranee). La zona si presenta ancora oggi  dal punto di vista ambientale molto suggestiva. Si raggiunge percorrendo un sentiero costeggiato da un  boschetto di cerri e querce, che rivela, con le sue tagliate, l’antica origine etrusca.
La via cava che conduce al santuario
L'’area è stata utilizzata nel corso dei secoli come cava di peperino, un’attività che ha interessato in passato tutto il comprensorio, e da cui deriva il toponimo “Pietrara” dato alla piccola frazione che si trova nelle vicinanze. Il luogo era noto agli archeologi soprattutto per i resti di una cisterna romana, e ai locali per la presenza di un bel fontanile, ormai prosciugato, conosciuto con il nome di Fontana Asciutta. In questo ambito, naturalmente predisposto ad un contatto con il divino, l’indagine della Soprintendenza ha consentito di riportare alla luce i resti di un santuario, di epoca etrusco-romana, dall’articolata planimetria. All’interno di una cavità rupestre, chiusa in epoca moderna da un muro per essere trasformata in ricovero agricolo, è stata individuata una piccola cella cultuale, lunga circa due metri e larga poco più di un metro, costruita con grandi blocchi di peperino, sfuggita miracolosamente all’attività di scavo clandestino. Il sacello ha eccezionalmente restituito gli arredi di culto e la statua in terracotta di una divinità femminile. Date le condizioni estreme dell’intervento, dovute all’esiguità dello spazio in cui operare, si è proceduto con un metodo molto singolare, ovvero smontando i lastroni della copertura a doppio spiovente della cella, e rimuovendo l’interro dall’alto. 
Il tetto del tempietto
Il piccolo edificio, che dal punto di vista architettonico richiama i modelli votivi del tipo a oikos (casa) , era stato inserito in una fessura della roccia, come a costituire un tutt’uno con quella cavità naturale, che probabilmente era stato la prima e più semplice dimora della divinità. Non sono state rinvenute decorazioni pittoriche all’interno, ma un sobrio intonaco color crema. Molto elaborata è risultata la struttura della copertura, con un timpano al centro del soffitto, decorato su entrambe le facce da un disco scolpito a rilievo, e un secondo timpano, con stesso motivo decorativo, impostato sulla fronte del sacello. A ridosso della parete di fondo della cella, sopra un banco monolitico di peperino, è stata trovata adagiata, ancora nella sua posizione originaria, la statua di culto, identificabile, per la sua iconografia, con la Demetra dei Greci, assimilata all’etrusca Vei e venerata poi dai Romani come Cerere. Il simulacro, datato al III secolo a.C., in terracotta, in origine dipinta, è di piccole dimensioni (alto circa 50 centimetri)), e rappresenta la dea in trono, che tiene nella mano destra una patera umbilicata, mentre nella sinistra, mancante di alcune dita, doveva sorreggere un mazzo di spighe, oggi disperso. Indossa un chitone con alta vita, tipicamente italico, e un mantello (himation) che dalla spalla destra sale verso la testa e la ricopre. Sullo stesso bancone è stata ritrovata una testina femminile fittile, forse attribuibile alla divinità che solitamente è collegata al mito di Demetra, vale a dire sua figlia Kore (Persefone o Proserpina). L’aspetto dell’introduzione di elementi di culti greci sul sostrato indigeno etrusco è sempre stato al centro dell’interesse di molti studiosi. L’etrusca Vei , il cui culto è stato documentato in vari contesti d’Etruria, soprattutto centro-meridionale, si configura come una divinità fortemente autoctona, dai caratteri che in genere si pongono nella sfera femminile, come la riproduzione, e in quella dei passaggi di status , che si estendono anche al passaggio tra città e campagna, e a quello tra la vita e la morte. Demetra è nota in Etruria sin dal VI secolo a.C., come attestano i vasi greci con sue raffigurazioni, ma gli elementi di connotazione demetriaca del culto di Vei si fanno particolarmente evidenti a partire dai primi decenni del V secolo a.C., fino alla sostituzione del culto di Demetra a quello della divinità indigena, così come documentato dal santuario di Macchia delle Valli.
La statua della Demetra
 Lo scavo all’interno del sacello, ha portato anche al rinvenimento, al centro della parete destra, di un tavolino rituale, sotto il quale erano stati deposti, in posizione rovesciata, forse proprio a sottolineare il carattere sotterraneo del culto praticato, alcuni reperti di ceramica. Su un piccolo altare di peperino, è stata infine recuperata una moneta di bronzo, un asse di Domiziano, emessa dalla zecca di Roma nell’anno 86 a.C., ma che dall’usura rivela una lunga circolazione. La moneta data perciò tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. l’ultima fase di frequentazione della cella. Tra questa e la grotta, un’ area all’aperto, costituiva una zona di passaggio (antecella) di grande  importanza per il culto. Qui è stata rinvenuta una base di peperino, usata come sostegno per un  strano e suggestivo donario di argilla, incompleto, a forma di torso umano, di modestissima fattura, rappresentante forse un embrione umano, allusivo quindi alla fertilità che qui si veniva a propiziare.
La sala del Museo Nazionale della Rocca Albornoz di Viterbo interamente dedicata al Santuario di Demetra

Lo scavo eseguito in grotta ha consentito il recupero di ceramica e votivi di epoca etrusca e romana. Un lastrone staccatosi dalla parete rocciosa, e adagiatosi in posizione pressoché orizzontale sopra la cavità naturale, era stato utilizzato in antico come “terrazza” di culto, con apprestamenti atti alla celebrazione del rito: libagioni verso la cella, che si disperdevano poi nella terra. Anche nell’anfratto sottostante questa terrazza e nell’area aperta prospiciente è stato recuperato numeroso materiale votivo.  
La "terrazza" cultuale del Santuraio

Le caratteristiche dei reperti rinvenuti in tali depositi, con prevalenza di ex voto anatomici, soprattutto uteri, ma anche piedi, teste, gambe, e l’associazione con statuette di argilla rappresentati figure femminili (tanagrine), indirizzano il culto qui praticato verso la sfera della fecondità e della guarigione (sanatio). Nei pressi della grotta si sono inoltre raccolte importanti testimonianze dei riti svolti, legati alla presenza dell’acqua, che veniva raccolta in una vasca monolitica in peperino e poi riutilizzata in un labrum (bacino) lapideo per cerimonie lustrali.
Reperti rinvenuti all'interno del Santuario (a destra "embrione umano" ? )


Per la sua collocazione extraurbana, rispetto agli antichi insediamenti noti nel territorio vetrallese, il complesso si configura sicuramente come un santuario di campagna, connesso ad un contesto sociale rurale e frequentato prevalentemente da un ceto contadino. In base alla datazione del materiale recuperato è possibile datare la frequentazione dell’area tra la fine del IV secolo a.C e gli inizi del II secolo.
Per quale motivo il santuario rupestre di Macchia delle Valli venne abbandonato? Un evento bellico? Un’epidemia? O forse il prosciugamento della sorgente d’acqua? Quel che è certo è che l’abbandono fu voluto e intenzionale, infatti  tutta l’area venne occultata e sigillata con un consistente strato di residui di cava, lasciando intatte solo cella e antecella, e spargendo in varie zone, le più significative del santuario, una grande quantità di una sostanza all’apparenza liquida, rilevata da uno strato nel terreno di colore più scuro. Un’ipotesi molto suggestiva vorrebbe riconoscere in questo liquido del latte, o meglio ancora il famoso ciceone, la bevanda composta da acqua, farina di orzo e menta, legata al mito e quindi al culto di Demetra.


I cavalli alati di Vetralla

Nel 2002, in una raccolta privata, conservata a Cura di Vetralla, in occasione della redazione dell’elenco e schedatura dei reperti, venne effettuata una sorprendente scoperta. Tra decine di pezzi di scarso valore scientifico venne individuato un gruppo di frammenti pertinenti ad una lastra di terracotta architettonica, in argilla rosa, con altorilievo, raffigurante una coppia di cavalli alati. Lo stile e l’elaborazione di alcuni particolari, come la posizione delle zampe, la resa degli zoccoli, delle bocche semiaperte, la ricca bardatura, la presenza di piume sulle ali, non lasciavano spazio ad alcun dubbio: si trattava dell’unica replica antica conosciuta della lastra architettonica con cavalli alati, proveniente dall’Ara della Regina di Tarquinia, simbolo stesso della città e del locale Museo Nazionale. Le dimensioni si presentano ridotte rispetto all’originale, e anche la qualità dell’opera è di livello nettamente inferiore.
I "cavalli alati" della collezione privata
Ma l’indubbio confronto con il modello tarquiniese fa dedurre l’esistenza di cartoni di riferimento che dovevano circolare nell’ambito del territorio della grande metropoli etrusca. Non bisogna dimenticare che il tempio dell’Ara della Regina è il più grande tempio etrusco sinora scoperto, ed aveva una rilevanza nazionale, risulta pertanto agevole ipotizzare che la magnifica opera che ne decorava il frontone fosse molto nota e ammirata dai contemporanei, e che esistessero nell’entroterra tarquiniese botteghe che si cimentavano in repliche, certamente più scadenti e provinciali, del celeberrimo capolavoro fittile. 
I cavalli alati di Tarquinia
Museo Nazionale Etrusco, Tarquinia (vt)
Da dove poteva provenire la copia conservata a Vetralla? Sicuramente dall’Etruria meridionale interna, dal momento che i possedimenti della famiglia che è ancora proprietaria del reperto, ricadono in questo ambito territoriale. Forse da un piccolo luogo di culto, afferente ad un centro minore del comprensorio. In occasione dello scavo del santuario di Macchia delle Valli, sono stati notati tre incassi su una parete rupestre che chiude a sud l’area cultuale, forse pertinenti all’alloggiamento di tre travi, la cui disposizione disegna la forma inclinata di un tetto. Non si può escludere che questa copertura a spiovente potesse essere funzionale ad un edificio antico. Se così fosse, non solo gli archeologi avrebbero per la prima volta la possibilità di misurare concretamente l’altezza di un tempio etrusco, ma forse ci troveremmo anche di fronte all’originaria collocazione dell’altorilievo con cavalli alati conservato a Vetralla, che quindi non si sarebbe mai troppo allontanato dal luogo per cui era stato commissionato e realizzato.  

mercoledì 5 agosto 2015

Che odore aveva la pelle di Ramtha?!



 Si chiama, in modo molto poetico e suggestivo, “archeologia dell’evanescente” ed è la scienza umanistica che si occupa del mondo dei profumi antichi. Io ne sono rimasta “folgorata” alcuni anni fa, quando, insieme ad un gruppo di ricercatori sperimentali, siamo stati incaricati dal CNR di ricostruire dei profumi, partendo da residui organici, individuati all’interno di contenitori, scoperti a Cipro e datati al 1800 a.C.!

Da quel momento il mondo del “profumo archeologico” ha cominciato ad esercitare su di me un fascino irresistibile, al punto che la mia attività di studio e ricerca ha finito per orientarsi principalmente verso questo particolare aspetto dell’antichità. Ovviamente l’esperienza sensoriale ne rappresenta un momento imprescindibile. Come fai a non essere travolta dalla curiosità di “annusare” la Storia?! Ricostruire antichi profumi è diventata una passione che ormai mi si è cucita addosso, direttamente sulla pelle, è diventata parte di me, è me!







Manipolare fiori, piante, spezie, incensi, cere, “giocare” con padelline e alambicchi vari, “assaggiare” con il naso, è qualcosa di entusiasmante che ti coinvolge ad ogni livello, professione ed emotivo. E’ un’attività che ha risvolti legati più al mondo magico-esoterico che non a quello storico-scientifico: “dissolve et coagula”! Quali sono le fonti da cui partire per ricostruire una famosa “nota” olfattiva di duemila anni fa?! Innanzitutto quelle letterarie antiche. E tra queste spicca e domina su tutte il trattato “Sugli Odori” del filosofo greco Teofrasto (IV sec.a.C). Da lui deriveranno gran parte delle loro conoscenze anche gli autori latini, Plinio in primis. Poi ci sono le documentazioni archeologiche, di scavo, a cui di recente si affianca l’attività di chimici molecolari che, grazie alle moderne tecnologie, sono in grado di individuare le componenti di antichi unguenti anche solo analizzando le pareti porose dei contenitori.
E le belle donne etrusche?! Sappiamo qualcosa in merito ai preziosi e sicuramente raffinati unguenti con cui erano solite nutrire e profumare la loro pelle?! Assolutamente si! A partire dalla metà del VII sec. a.C. e per gran parte di quello successivo, vengono importati in Etruria quantità straordinarie di unguentari prodotti nella città di Corinto. Le tombe etrusche arcaiche hanno restituito decine e decine di aryballoi e alabastra, proto-corinzi e corinzi.
L’affezione verso questo tipo di prodotto era tale che presto anche in Etruria si avvierà una produzione di ceramica etrusco-corinzia, commercializzata e distribuita in tutto il Mediterraneo, che aveva proprio negli unguentari la sua punta di diamante.
Cosa contenevano queste deliziose, e perlopiù minute, ceramiche prodotte a Corinto, che faceva letteralmente impazzire le ricche signore dell’aristocrazia etrusca?! Ce lo dice Plinio, nella “Naturalis Historia”, quando, parlando proprio dei profumi greci, ci informa che Corinto era famosissima per il suo profumo a base di rizoma (radice) di iris. Come era ottenuto questo profumo ce lo “spiffera” invece il caro Teofrasto: rizoma di iris essiccato per cinque anni, lasciato macerare a freddo in olio.

Eccezionale è stata poi la scoperta, a conferma delle fonti scritte, di un unguentario corinzio con scritto sopra proprio il nome del profumo: Irinon! E poiché gli Etruschi erano un po’ i Cinesi del mondo antico, nel senso che “scopiazzavano” di tutto, nessuno mi toglie dalla testa che anche loro, all’interno degli unguentari etrusco-corinzi, distribuissero lo stesso tipo di essenza, ovviamente a prezzi concorrenziali. Basti pensare all’antica tradizione della coltivazione del giaggiolo in terra etrusca, soprattutto in Toscana, al punto che il giaggiolo, o iris, o giglio fiorentino, è diventato non solo il simbolo di una città, che vanta da sempre origini etrusche, ma anche quello di una nobile casata “radicata” nello stesso contesto dove visse l’antico ethnos italico: i Farnese.

Mi piacerebbe in un futuro approfondire anche questo interessante aspetto, al momento buttato lì solo come invitante suggestione. L’Irinon è un profumo dolce e gradevole. Essendo derivato da una radice ha la calda sensualità della terra. Il fatto di essere un profumo in olio lo rende instabile e perciò “vivo”. Niente a che vedere con i nostri alcolici profumi di sintesi! Interagisce con la pelle con cui viene a contatto, e cambia di continuo le sue caratteristiche pur mantenendo la sua “nota”. Chiudere gli occhi e immaginare le movenze di una danzatrice etrusca che ci inebria con il suo odore rappresenta un’esperienza “altra” del mondo antico, molto più reale e coinvolgente. Adoro portare in giro questi profumi e farli “respirare” alla gente (ovviamente non ho le capacità di una produzione industriale, ma se qualcuno è curioso di “provare” questo profumo può contattarmi in privato). Mi piace leggere lo stupore e la meraviglia sui loro volti, e quell’incanto che solo ciò a cui diamo il nome di “magia” sa suscitare.





“Gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’orrore, davanti alla bellezza, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Poiché il profumo era fratello del respiro.”

(tratto da “Il profumo” di P. Suskind)

venerdì 27 marzo 2015

La Centrale Montemartini di Roma: un viaggio fantastico tra macchine e dei!



E’ una splendida giornata di sole, anche se siamo ancora a febbraio.  La campagna romana, in avvicinamento alla città, brilla di luce e scorre via rapida dal finestrino del treno. I raggi mi baciano con il loro calore ed io regalo loro un sorriso. Mi sembra il minimo. Oggi sarà una giornata speciale. Lo sono un po’ tutte quelle che trascorro a Roma, ma la destinazione odierna mi riempie di entusiasmo ed eccitazione. Ho un gruppo da accompagnare al quartiere Ostiense, ai Musei Capitolini. Ai Musei Capitolini?!  Ma non stanno sul Campidoglio?! Non tutti! Sulla via Ostiense, poco oltre la Piramide Cestia e la Porta San Paolo, si trova l’ex Centrale Termoelettrica Giovanni Montemartini. E che c’entra?! Tempo al tempo.
La storia che ci interessa ha inizio nel 1997, quando per consentire lavori di ristrutturazione di ampi settori del complesso capitolino, numerose sculture e molti altri reperti archeologici dovettero migrare dalle loro stanze e saloni.  Per non sottrarre al pubblico queste meraviglie, venne allestita una grande mostra, che si decise di ospitare all’interno del primo impianto pubblico di energia elettrica della Capitale: la Centrale Montemartini, appunto. Il fascino esercitato da questa sede e dalla maestosità dei suoi ambienti, così adatti ad accogliere opere monumentali e ricostruzioni architettoniche di antichi edifici, fu più forte della preoccupazione di accostare tra loro due mondi così diversi: l’archeologia e l’archeologia industriale. L’obiettivo era troppo invitante. In un sol colpo si poteva ridare vita, anche se con una nuova funzione, all’antica centrale e presentare al pubblico le sculture rimaste temporaneamente senza fissa dimora. L’interesse dei visitatori  e degli addetti ai lavori, attratti da questo accostamento ardito, decretarono il grande successo del nuovo spazio espositivo, che da esperimento passò così a sede permanente per le collezioni di più recente acquisizione dei Musei Capitolini.
Mentre ripercorro nella mente queste tappe storiche dell’allestimento, quasi una sorta di ripasso per quello che dovrò poi raccontare ai miei uditori, ecco che lo speaker annuncia l’arrivo del treno alla Stazione Ostiense, scusandosi per il solito ritardo. Guardo l’orario. Il mio gruppo dovrebbe già essere fuori della Centrale ad aspettarmi. Mi incammino con passo sostenuto. A molti non piace questa parte di Roma. Io la trovo molto suggestiva. E’ un particolare paesaggio urbano, quasi sconosciuto anche alla maggior parte dei romani, caratterizzato dalla maestosità dei Gazometri e dal grande “cobra d’ acciaio”, il modernissimo ponte che unisce Ostiense alla Garbatella. Pochi lo sanno ma l’ardito manufatto è stato intitolato a Settimia Spizzichino, l’unica sopravvissuta ai rastrellamenti del Ghetto e alla conseguente prigionia nel campo di Auschwitz.
Un vero “ponte” tra passato e futuro, insomma. Con la mente impegnata in queste riflessioni giungo alla mia destinazione, sorpresa di aver trovato la strada senza neppure un’inversione di marcia o una strategica richiesta d’aiuto al primo passante. Che io mi perda ovunque è tristemente noto. Credo che il mestiere di guida mi sia toccato per la ben nota legge del contrappasso.
Ecco il mio gruppo. Alzo la mano per un saluto. Mi rispondono. Ci siamo riconosciuti. Li raggiungo. Mi presento. C’è un signore, con tanti ricci in testa ed un sorriso contagioso, che scatta già foto a raffica. “E’ il mio uomo, non mi scappa!” – mi dico tra me e me soddisfatta. “Buongiorno! Lei come si chiama?”. “Danilo” – mi risponde. “Piacere, Danilo. Lei dovrebbe farmi un grande favore…". Spiego a Danilo che da poco ho un mio blog, dove cerco di raccontare, a chi ha voglia di ascoltarmi, le bellezze storico-artistiche in cui ho la fortuna di imbattermi esercitando la mia professione. Il mio interlocutore ascolta interessato. Avrei bisogno che ogni tanto lui mi scattasse qualche foto, perché l’idea di fondo sarebbe quella di uscire da una spersonalizzata spiegazione dei siti per coinvolgere chi legge nella “mia” personale esperienza di visita. Danilo ha capito e annuisce con un sorriso. Bene, si parte!
Entriamo nel cortile della Centrale che ci appare all’improvviso con l’eleganza imponente delle sua facciata liberty e le sue grandi vetrate che gli conferiscono una certa leggerezza, se non altro per via di quel cielo azzurro che vi si riflette. Non sembra una centrale termoelettrica, si direbbe piuttosto un bel palazzetto residenziale degli inizi del Novecento. Mi piazzo sotto uno dei lampioni che decorano lo spazio esterno e inizio la mia introduzione storica al contesto.
La Centrale Termoelettrica Giovanni Montemartini di Roma venne inaugurata il 30 giugno del 1912. Fin da quando era stata elaborata l’idea di creare un’azienda municipale di produzione di energia elettrica, si era pensato alla costruzione di una centrale che, come era solito allora, funzionasse con turbine a vapore e relative caldaie. Alla fine però si decise per un sistema di produzione misto diesel-vapore. Progettata fin dal principio come impianto di “riserva”, in realtà poi fornì per un lungo periodo un servizio continuo, garantito dall’uso delle turbine a vapore, più adatte a svolgere un lavoro continuato nel tempo, mentre ai diesel venne affidata la produzione nelle ore di “punta”. Bla…bla…bla…
Questa parte annoia anche me e quindi taglio corto. A una cosa ci tengo però: i lampioni! Non mi sono mica piazzata lì sotto solo per sentire le inevitabili e ironiche battutine del mio pubblico. Si tratta di due “fanali” storici, ritrovati smontati nei depositi dell’Acea. Facevano parte di un gruppo di sei, fusi alla fine dell’Ottocento, dalla illustre fonderia del Pignone di Firenze. A cosa serve una guida se non a focalizzare l’attenzione dei visitatori sui dettagli che altrimenti verrebbero trascurati?!

In origine erano stati progettati per sostenere i cavi per l’alimentazione elettrica delle linee del tram. In seguito furono utilizzati per l’illuminazione elettrica del centro della città. Faccio notare la raffinata decorazione. Alla base ci sono quattro teste di lupa che reggono festoni tra le fauci, sopra le quali viene messo in scena il Trionfo dell’Elettricità. No, non sto scherzando! E’ rappresentato da un giro di quattro fanciulle nude danzanti, i cui capelli terminano in acuminati raggi elettrici. Dal mio gruppo di uditori, ormai perso nella danza di quelle “elettrizzate” ninfe, si alza una voce: “Te la faccio una foto sotto il lampione?!” “Tu che dici, Danì?!”  Click!


Finalmente stiamo per entrare. Dalle grande vetrate volti di marmo sembrano sbirciare incuriositi il nostro ingresso. Ogni volta che ne intravedo uno e i nostri sguardi si incrociano un brivido  mi attraversa. Ho come l’impressione che mi riconoscano e immagino la loro domanda. “Si, sono tornata…” – gli rispondo.


Il primo impatto con la centrale può essere destabilizzante. La prima cosa che ti colpisce è quell’odore forte di ghisa e di combustione, è un’esperienza olfattiva forte, molto evocativa. Si ha la sensazione che da un momento all’altro tutto debba mettersi in moto e tornare a funzionare. Anche l’ambiente è così diverso dai contesti museali a cui siamo abituati. Ma so per esperienza che questo primo impatto frastornante lascerà il posto allo stupore e alla meraviglia.


Le opere qui esposte sono le ultime acquisite dai Musei Capitolini. Molte sono state recuperate a seguito dei lavori edilizi per Roma Capitale, avviati subito dopo il 1870, effettuati in quelle zone dove si andavano costruendo i quartieri residenziali riservati alla classe di “ministeriali” che sarebbe di lì’ a poco affluita a Roma.  Altrettanto numerosi furono i ritrovamenti emersi durante i grandiosi lavori urbanistici degli anni trenta del Novecento, che interessarono le zone più importanti del centro monumentale antico. L’eccezionalità del museo, oltre i materiali, riguarda anche i criteri espositivi.
Si è preferito privilegiare  la ricostruzione dei contesti originari di rinvenimento, piuttosto che fare un’esposizione per generi. Mi spiego meglio. Spesso, visitando un museo di arte antica, ci si trova in mezzo ad un popolo di statue, disposto per “figure simili”. Il criterio è quello dell’arca di Noè. Tutte le amazzoni ferite a destra, i discoboli e sinistra, in lato i filosofi e a seguire gli imperatori.  L’effetto generale è fuorviante, perché le sculture non parlano la stessa lingua, sono state realizzate in epoche diverse, funzionali alla decorazione di svariati monumenti e poi accostate tra loro nel museo, avendo come elemento unificante il modello greco al quale si rifanno.
Non così alla Centrale, dove si è cercato di ricostruire i complessi perduti e di ridare unità al molteplice. Ora entriamo nella prima sala del piano terra. In origine serviva per raccogliere, attraverso una serie di tramogge poste sul soffitto, i residui della combustione del carbone. I pilastri che servivano a sostenere le caldaie, poste al piano superiore, sono stati inglobati in quinte continue, per cui questo ambiente è quello che meno somiglia ad un impianto industriale.
Nel primo settore è raccolta una preziosa documentazione afferente la sfera religiosa e funeraria. La maggior parte dei reperti proviene dall’Esquilino e, precisamente, dal più grande e antico sepolcreto della città, con testimonianze già dalla fine del IX sec. a.C, e che continuò ad essere utilizzato fino alla tarda età repubblicana. Sarcofagi,  urne cinerarie, rilievi, dipinti provenienti da vari monumenti sepolcrali si dispongono intorno a noi. Qua e là mi soffermo per dare qualche spiegazione. Danilo cerca il mio sguardo per cogliere un mio cenno di assenso e intervenire così con uno scatto. Gli faccio segno di lasciare andare. 
Entriamo ora in un ambiente che suscita sempre un certo stupore, del resto gli arredi che contiene furono concepiti proprio per generare questo tipo di reazione. Uno degli esemplari più belli qui esposti, degno rappresentante di quella che i Romani definirono luxuria,  è un letto, ovviamente ricostruito nella sua parte lignea, scoperto in una tomba di Amiterno in Abruzzo. Ha due spalliere, come si addice ad un letto da parata, ed è rivestito da lamine di bronzo, che sul telaio sono decorate con la tecnica ad agemina, una minuta connessione a intarsio di laminette di argento e di rame sulla superficie di bronzo, che conferisce delicati effetti di luce e colore. Mentre mi dedico alla spiegazione, sono distratta dalle contorsioni di Danilo, che sta tentando non so quale straordinario effetto tra il vetro, il letto e me. Che dio ce la mandi buona!
Mentre mi attardo in pose suggestive, gli altri hanno già raggiunto la “lettiga capitolina”. Mi dispiace sempre smorzare gli entusiasmi, raccontando che si tratta in realtà di un pastiche. Così si chiama l’assemblaggio di vari manufatti non  concepiti in origine per stare insieme. In questo caso il montaggio ottocentesco di decorazioni, pertinenti ad un letto da triclinio, ad un carro e ad una cassa, fu opera di uno dei più gradi antiquari dell’epoca, Augusto Castellani. Già ripreso dalla delusione, il gruppo mi sta tirando verso il meraviglioso mosaico che decora la parete di fondo.
Proviene da una ricca casa, scoperta in via Panisperna, e in sintonia con l’ambiente in cui è stato trovato, caratterizzato da una grande vasca centrale, raffigura un variopinto paesaggio marino, riprodotto con impressionante fedeltà realistica, degna di un grande conoscitore della fauna ittica. Entriamo ora nella galleria dei ritratti e passiamo in mezzo ad una folla di volti che decoravano in origine l’interno delle case o l’ingresso delle tombe. Schiavi affrancati, orgogliosi della loro cittadinanza romana, esponenti della borghesia, che volevano ostentare il loro prestigio sociale, si facevano ritrarre per desiderio di autorappresentazione. 
Ecco la “sciura” del rilievo di Via Statilia, databile verso la metà del I sec. a.C., ricoperta di gioielli e con il volto incorniciato da un’artificiosa acconciatura con i riccioli che le scendono sulla fronte e sulle guance, a fianco del compassato marito, piuttosto attempato, a giudicare dalle rughe che gli solcano il viso. Seguono i ritratti di sei esponenti di una stessa famiglia, in un rilievo funerario dell’inizio dell’età augustea. Faccio notare alle signore che l’anziana donna è pettinata secondo la moda instaurata da Livia, moglie di Augusto. Danilo sta scattando a raffica, azzardo anche qualche tentativo di posa, avvicinandomi alle sculture.
La custode ci ha puntato. Ormai hanno un sesto senso per individuare i visitatori potenzialmente pericolosi. All’improvviso parte l’allarme. Diana efesina, fa che non siamo stati noi! Alcuni ragazzi di una scolaresca hanno inavvertitamente superato un cordone di sicurezza nell’altra stanza. Il cerbero si allontana di corsa.
Quando ritorna gli lancio uno sguardo di sufficienza: “Hai visto?! C’è di peggio!”  Ormai posso anche compromettermi, basta con sorrisetti e panegirici sulla professione del custode, tanto tra poco lasciamo il primo piano. Mi trattengo giusto il tempo di presentare la star del corridoio, il cosiddetto “Togato Barberini”.
E’ fieramente ammantato dalla toga, simbolo della cittadinanza romana, imposta da Augusto come “divisa” da indossare a teatro e nelle occasioni ufficiali. Sostiene le immagini degli antenati, il padre a sinistra e il nonno a destra. L’uso di far eseguire le immagini in cera degli antenati (mos maiorum) era una consuetudine riservata solo alle famiglie aristocratiche, che le conservavano nell’atrio della casa e le “indossavano” in occasione di ricorrenze particolari, sia pubbliche che private. Finalmente si ascende. Dal piano terra una scala conduce alla Sala Macchine, indubbiamente la più bella e scenografica, vero centro monumentale del complesso. Mentre salgo sento dietro di me un annaspante fiato sul collo. Mi giro. E’ Danilo. “Danilo, anche mentre salgo le scale?!” Non mi risponde, ma fa una faccetta birbantella, come a dire: “ L’hai voluta la bicicletta?!”
Siamo in cima alla scala. E’ sempre emozionante sentire le esclamazioni di stupore di chi discopre per la prima volta questo fantastico scenario ed i commenti eccitati ed entusiasti che seguono. Da quassù si può ammirare la sala in tutto il suo splendore. Al centro è stata creata una lunga navata che corre parallela alle macchine. Statue di un bianco candido si stagliano contro il metallo scuro dei giganteschi motori diesel e della turbina a vapore, in un gioco netto ed affascinante di contrasti.
Sui lati corti del corridoio la grande statua della Minerva fronteggia i resti della decorazione frontonale del tempio di Apollo Sosiano. Uno spettacolo straordinario di macchine e dei. Dobbiamo ridiscendere qualche gradino per guadagnare il livello della sala. Tutti si precipitano ammaliati da quello scenario che li attrae ormai come una calamita. “Danì!” – apostrofo il mio fedele scudiero che sta scendendo con gli altri – “Se non qui, dove?!” Torna indietro con l’aria di chi è stato colto in fallo e per farsi perdonare, con aria ammiccante, butta lì un complimento:  “Certo che lo sfondo rovina tutta la bellezza!”  
Scesi nella grande sala, ci troviamo circondati su entrambi i lati da una galleria di statue, ispirate ai più famosi originali dell’arte greca. L’attenzione  è catturata  ora dalla scura parete delle macchine, con i loro meccanismi di manovra, ora dalle sagome delicate delle sculture antiche: l’essere e il divenire, l’immobilità ed il movimento, l’antico e il moderno, il bianco e il nero, si contrappongono e si compenetrano. Meraviglia degli opposti!

Dall’alto domina lo scenario l’immagine colossale di Atena. Proveniente da un lungo porticato che fiancheggiava la Via Lata, corrispondente all’attuale via del Corso, fu realizzata in un unico blocco di marmo greco, proveniente dall’isola di Taso, usato di frequente per opere di grandi dimensioni, grazie alla solidità conferita da rare venature di cava.
Passiamo incantati tra uno stuolo di dei, li presento solo con il loro nome per non rompere il silenzio e la magica atmosfera che si sono create: l’Atena  Parthenos, l’Atena Lemnia, Eracle, Dioniso, Afrodite, una statua colossale di Apollo che suona la cetra. E questa che ci fa qui?! Oh, sempre in mezzo Cleopatra!  
Raffinata ed elegante la statua vestita di peplo, rinvenuta sulla Via Labicana. Alla sua immagine candida ed eterea fa da quinta scenografica uno dei possenti motori diesel, con un’invitante quadro di manovra: non si può resistere, è una delle foto più inflazionate del museo.  “Paola, Paola!” - qualcuno mi chiama. Le avanguardie hanno individuato qualcosa di eccezionale e vogliono saperne di più. E te pareva?!  Lo sapevo che ce l’avevano con lei. “E’ nota come la statua dell’Orante” - esordisco – “è realizzata in basanite, una strana e preziosa pietra di colore nero-verdastro, proveniente dal deserto egiziano”.
L’incipit piace molto, anche perché tutti gli aggettivi che ho usato convalidano l’eccezionalità dell’opera. Gli “scopritori” ora si guardano tra loro compiaciuti e soddisfatti. Questa scultura di grande qualità artistica  fu scoperta sul Celio alla fine dell’Ottocento. Si data alla prima metà del I sec. d.C. e si inserisce nell’ambito di una serie di sculture dedicate alle donne della famiglia imperiale. L’opera, ridotta in frantumi, fu rinvenuta all’interno di una muratura tardo-antica, dove era stata utilizzata come materiale da costruzione, secondo una consuetudine frequentemente attestata a Roma. Chi rappresenta questa figura? Guardo i volti che mi circondano, tanti vispi occhietti brillano di curiosità. Anche Danilo, macchina fotografica ciondolante al collo e mani in tasca, sembra interessato alla spiegazione. Nell’Orante, spiego, è stato riconosciuto un ritratto di Agrippina Minore, moglie dell’imperatore Claudio e madre di Nerone. La statua fu rinvenuta priva di testa, ma grazie ad alcuni studi fu proposta la pertinenza alla figura di un ritratto di Agrippina Minore conservato alla Gliptoteca di Copenaghen, acquistato nel 1887 sul mercato antiquario romano, quindi più o meno negli stessi anni in cui si realizzavano gli scavi per la costruzione dell’Ospedale Militare del Celio. “Qualcuno se l’è rubata!” - commenta una voce che si leva dal gruppo. Possibile. L’identificazione del personaggio sembrerebbe avvalorata anche dal luogo del ritrovamento, il Celio, in una zona non molto lontana dal Tempio del Divo Claudio, dove Agrippina aveva voluto quindi comparire in atteggiamento assorto e mistico davanti al marito divinizzato, nel luogo di culto che essa stessa aveva dedicato alla sua memoria. Curiosa la sua devozione se si pensa che secondo gli scrittori di corte, sarebbe stata proprio lei ad avvelenare il marito con un piatto di funghi!
Insieme all’Orante, nello stesso muro, e spezzata in 151 frammenti, fu rinvenuta un’altra splendida scultura di bigio antico, nota come Vittoria dei Simmaci. Mi sto avvicinando a quest’opera quando vengo apostrofata da una voce ormai familiare. “E qui, con la vedova allegra, non la facciamo una bella foto?!”. Meno male che c’è Danilo! Dopo qualche foto intorno ad Agrippina instrado il gruppo verso la cosiddetta Vittoria dei Simmaci, già preannunciata. In realtà che si tratti proprio di una Vittoria non è poi così scontato. Tutti ora hanno drizzato le orecchie. L’argomento si fa interessante. Un elemento di non poca importanza per la sua identificazione è l’impiego del marmo scuro per le vesti, con un intento che potrebbe non essere solo coloristico e decorativo. Forse si voleva mettere anche in risalto l’esoticità del materiale per sottolineare una caratteristica della divinità raffigurata, per esempio la sua origine straniera, la sua diversità, che doveva essere apprezzata a prima vista, per permetterne un riconoscimento immediato. Forse non è così azzardato allora suggerire il nome di Iside, come è stato di recente proposto, ricollegandosi ad un luogo di culto dedicato a questa divinità e a Serapide, che si trovava proprio presso le pendici settentrionali del Celio.
A questo punto tutta l’attenzione dei presenti è rivolta al fondo della sala, dove domina, con i suoi 18 metri di lunghezza, la ricostruzione del frontone del tempio di Apollo Sosiano. Salgo in cima alla scala, che consente una visione ravvicinata delle sculture ed inizio l’ennesimo racconto. In una zona extraurbana, denominata Prata Flaminia, dove successivamente verrà edificato il Circo Flaminio, sorgeva fin dal 431 a.C. un tempio dedicato ad Apollo Medico, in adempimento al voto fatto in seguito a una terribile pestilenza che aveva decimato la popolazione di Roma. Il tempio subì in seguito vari rifacimenti, fino a che non fu interamente ricostruito da Gaio Sosio, trionfatore sul popolo giudaico nel 34 a.C.
Gli scavi condotti tra il 1926 ed il 1932, per l’isolamento del teatro di Marcello, portarono alla luce una parte dei monumentali resti del tempio. Sul podio vennero in seguito rialzate le tre colonne crollate verso il teatro di Marcello, la trabeazione e la cornice, ma si scelse, per motivi estetici, di posizionarle all’angolo opposto rispetto alla loro originaria collocazione. Il gruppo scultoreo che decorava il timpano del tempio è da considerasi tra le maggiori acquisizioni nell’ambito della scultura greca del V sec. a.C. Tutte le statue si sono infatti rivelate preziosi originali  greci, trasportati a Roma in età augustea. Ovviamente do alla notizia tutta l’enfasi che merita.
La composizione, alla quale è stato finora possibile attribuire nove sculture, rappresenta una Amazzonomachia, ovvero una scena di battaglia tra Greci e Amazzoni. Al centro della scena campeggia l’immagine di Atena, vestita di peplo attico, coperto sul petto dall’egida.Tutte le sculture del gruppo frontonale erano in origine policrome. Doveva contribuire inoltre all’ accentuazione dell’effetto coloristico l’inserimento di elementi in bronzo, come le armi ed alcuni elementi decorativi delle vesti e delle acconciature.
Danilo è ora troppo preso a fare scatti e pure gli altri sono variamente affaccendati intorno alle sculture. Approfitto di questa “ricreazione” per riposarmi un po’ e fare qualche bella foto anch’io. Ma non possiamo perdere troppo tempo, siamo già in ritardo sulla tabella di marcia.  Mi sono ora posizionata in prossimità di un singolare monumento circolare e chiamo tutti a raccolta. “Il piccolo edificio circolare, che vedete alle mie spalle…”  - esordisco con un timbro di voce alto e impostato, per ottenere silenzio e attenzione - “..è databile alla prima età Flavia, in base all’iscrizione con dedica di Vespasiano, leggibile su uno dei frammenti”.
Ora che tutto il gruppo è di nuovo schierato di fronte a me posso proseguire. Il  monumento sorgeva nell’esiguo spazio compreso tra il Tempio di Apollo Sosiano e il Teatro di Marcello. La sua posizione, tangente all’anello esterno del teatro e in asse con la fronte del Tempio di Apollo, era veramente singolare e può trovare una giustificazione solo sulla base di un motivo religioso. Potrebbe trattarsi della ricostruzione di un edificio di culto più antico, la cui sacralità era tale da essere ritenuta inviolabile. Mi accorgo che mentre dico queste cose il tono della mia voce si è fatto accattivante e suadente come quello di chi racconta una favola. E mentre mi specchio in tutti quei volti che attendono il proseguo della storia, sorrido dentro di me pensando a quanto sia delizioso quel piccolo cerchio di bimbi incantati.
Mi interrompo per creare la giusta suspence e poi riprendo. Un’affascinante ipotesi ne suggerisce l’identificazione con il celebre perrirhanterion , il bacino d’acqua lustrale posto davanti al tempio di Apollo Medico dove, secondo le fonti letterarie, Catilina si lavò le mani sporche di sangue dopo aver mostrato a Silla la testa di un avversario politico, durante una riunione del Senato nel vicino Tempio di Bellona. “Mettitici un po’ dentro!”  Fulmino Danilo con uno sguardo. Addio tensione drammatica! Prima di allontanarmi, sottolineo come la strana posizione dell’edificio circolare sollevi un altro ordine di problemi legato al percorso delle processioni trionfali che prendevano avvio al Circo Flaminio. Si era ritenuto in passato che la via trionfale procedesse lungo i templi di Apollo e di Bellona, ma la presenza di questo piccolo monumento avrebbe ostruito totalmente il passaggio dell’imponente corteo, affollato di truppe di legionari, prigionieri, animali delle specie più svariate e carri colmi del bottino di guerra.
I miei uditori bloccano la diaspora e si fermano per ascoltare la soluzione di questo mistero. Si dovrebbe quindi concludere che la processione trionfale passasse attraverso le paradoi , o ingressi , del Teatro, e che lo attraversasse, consentendo così ad un grande pubblico di spettatori di assistere al trionfo in un contesto scenografico e spettacolare. A questo punto passiamo rapidamente in rassegna le opere provenienti dall’area del Campidoglio, cuore religioso della città, dove, per tutta l’epoca repubblicana, le più alte personalità dello stato fecero a gare per erigere monumenti celebrativi a ricordo delle loro imprese.

Seguono le sculture recuperate nell’area sacra di Largo Argentina e nell’adiacente teatro di Pompeo, da cui proviene una splendida statua di Musa seduta, che probabilmente ne decorava la scena.


Raggiungiamo così lo spazio di fronte alle grande vetrate della facciata. Qui, colpiti dalla luce e messi in ulteriore risalto dal fondo scuro dei macchinari, si trovano esposti i ritratti imperiali di Villa Rivaldi. E’ uno dei miei spazi preferiti.
Ci sono un paio di “amici” che devo assolutamente salutare. Prima presento il contesto di rinvenimento e la loro storia. Bisogna dare un’ anima alle cose per farle amare. Tutto ebbe inizio con l’apertura di via dell’Impero, che permise la scoperta di una grandiosa residenza che si pone ai confini tra il pubblico ed il privato, situata proprio in corrispondenza del giardino di Villa Rivaldi. 
L’impianto originario della domus  risale alla metà del I sec. d.C., mentre ad una importante fase di vita dell’edificio, tra la metà del II e la prima metà del III sec. d.C., si riferisce gran parte delle opere. Quelle qui esposte erano state utilizzate come materiale da costruzione nei muretti del giardino della villa. “Ma vi rendete conto?!”  Tutti annuiscono. Chissà se mi stanno ascoltando davvero. La bellezza di queste sculture è tale che sicuramente distrae l’attenzione.
Scoperte in frammenti, negli anni trenta del Novecento, finirono in Campidoglio. Un’intera galleria di illustri personaggi, imperatori e consorti, sfila davanti a noi, a testimonianza del prestigio e del ruolo politico del padrone di casa: Lucilla, Caracalla, Settimio Severo,  Otacilia Severa. 
Accanto a questi, come documento della raffinata sensibilità artistica del committente, sono state rinvenute splendide copie e rielaborazioni romane derivanti da famosi originali greci: la bellissima testa di Apollo tipo Kassel, da un originale di Fidia, il giovane atleta Kyniskos, da un originale di Policleto, la statua di Icaro, anch’essa ispirata a modelli policletei e quella di Antinoo, il giovane favorito dell’imperatore Adriano. A questi ultimi due va la mia indiscussa palma di più belli del reame! Ma non tutti sembrano d’accordo. Ognuno sta individuando il proprio ideale di bellezza, non c’è che l’imbarazzo della scelta.



Danilo sembra in preda ad una sorta di sindrome “scattoconvulsiva”. “Calma, mica ti scappano!” Ha capito che ho una specie di venerazione per il giovane amante di Adriano.  “Mettiti un po’ più vicina”  - mi fa - “Guardalo con occhioni dolci e ammicca”. A questo punto capisco  che la situazione mi sta drammaticamente sfuggendo di mano. “Vieni qua, davanti alla finestra. Chi è questo?!” Legge il cartellino. “Ah, sei Icaro! Devi sta’ un po’ più attento quando prendi il sole!"
"Qui di lato, Paola. Un controluce stupendo!” E adesso come ne esco?!  “Ma a che ora avete prenotato il pranzo?”  E’ una specie di formula magica che funziona sempre. Tutti guardano l’orologio. “Tra un’ora dobbiamo stare al ristorante” – mi risponde una gentile signora.  Quelle parole sembrano aver riportato in sé anche Danilo, che dopo un paio di altri scatti finalmente mi libera.



Lo spazio dell’ultima sala è meno invaso dal volume delle macchine, anche se una caldaia di circa quindici metri di altezza impone in modo vistoso la sua presenza. Ma ormai, come previsto, tutti sono abituati all’anomala convivenza, e tutto sembra naturale, esattamente come dovrebbe essere.
Lo spazio più libero ha reso possibile l’organizzazione di un allestimento più articolato e giocato intorno all’enorme mosaico degli horti Liciniani, che un ballatoio permette di osservare dall’alto in tutta la sua estensione. Rappresenta la cattura di animali selvatici per le venationes dell’anfiteatro.


Attorno ad esso l’allestimento  dispone gli elementi tipici della villa romana: il porticato, l’esedra e le  numerose nicchie che accolgono le statue e segnano il percorso espositivo. In questo grande spazio si è tentato, con successo, di restituire ai visitatori gli aspetti connessi alla vita privata, attraverso la ricostruzione dell’apparato decorativo di grandi residenze gentilizie, poi passate nella proprietà privata dell’imperatore, come gli horti Sallustiani sul Quirinale e i Liciniani sull’Esquilino.


Non meno interessanti sono le sculture che decoravano alcune domus private di età imperiale e che riflettono il gusto del padrone di casa, spesso un fine conoscitore dell’arte antica. All’ingresso ci accoglie un raffinatissimo pezzo di arredo da giardino.  Si tratta di una grande tazza marmorea, decorata con un prezioso intaglio di girali di acanto accostati a  tralci di vite e grappoli di uva, chiari riferimenti al mondo dionisiaco, eseguita da un abilissimo scultore, probabilmente di origine greca.
Anche se comincia ad essere un po’ stanco, il mio fedele scudiero non si sottrae al suo ruolo, e, impugnata la macchina fotografica: “Paola, un sorriso!”. Poco di lato ecco la splendida figura di Polimnia, la delicata fanciulla che con aria sognante contempla un lontano orizzonte, fatto di vagheggiamenti poetici che la portano  al di fuori della realtà. Come la capisco! La statua era stata scolpita per gli Horti Spei Veteris. “Gli orti di che?!” –chiede qualcuno.  “Horti della Speranza Antica” –spiego. Si estendevano dalla zona corrispondente all’odierno piazzale di Porta Maggiore,fino all’estremità sud-orientale della città.
Un ampio possedimento che l’imperatore Settimio Severo trasformò in giardino, quando progettò il suo palazzo residenziale con annesso anfiteatro di corte e circo. Elagabalo completò i lavori e sotto di lui la nuova residenza imperiale assunse un lusso ed uno sfarzo inusitati, sicuramente la cornice più appropriata per la natura capricciosa di questo imperatore. Nel 270 d.C. la residenza perse  il suo originario splendore a causa della costruzione delle Mura Aureliane che divisero a metà il complesso, lasciando fuori il circo e trasformando l’anfiteatro in struttura difensiva. Agli inizi del Novecento, durante i lavori per la costruzione di alcuni edifici residenziali, in questo contesto, fu rinvenuto un vero e proprio “tesoro”.
Si scoprì che in un cunicolo sotterraneo, erano stati nascosti un gruzzolo di monete ed alcune sculture, tra cui la suggestiva Polimnia. Straordinaria la conservazione della patina originaria del marmo, che rende la pietra  calda e quasi viva. Danilo gli sta girando intorno, manco si trattasse di una modella a cui fare un book! “Bèh?! Devo essere gelosa?!” – gli faccio con espressione risentita.


Intanto mi avvicino ad un altro momento artistico straordinario, di quelli che ti lasciano senza parole, ma dovrò trovarle. La prendo alla lontana, tanto stanno tutti lì a bocca aperta, impietriti da quella sinuosa pietra. Intorno alla metà del III secolo d.C. l’imperatore Licinio Gallieno fece costruire una sontuosa residenza sull’Esquilino,dove era uso recarsi con tutta la sua corte. Là ,dove sorgeva la  villa, si trova ancora oggi uno straordinario monumento, dalla complessa pianta polilobata, impropriamente conosciuto come Tempio di Minerva Medica. Probabilmente si tratta invece di un ninfeo monumentale appartenente alla villa stessa , all’interno del quale, durante gli scavi ottocenteschi, fu rinvenuto un notevole gruppo di sculture fatte a pezzi e riutilizzate per la costruzione di un muro più tardo.
Proprio qui fu ritrovata la splendida fanciulla, che, mentre parlo, ci sta incantando con la sua bellezza. E’ seduta su uno sgabello dalle zampe tornite, l’aspetto pensieroso, poco più che una bambina, come denunciano i tratti sottili ben disegnati e le guance paffute. La figura è raccolta su se stessa, il busto inclinato in avanti, il braccio destro appoggiato all’orlo del sedile, il sinistro piegato, con il gomito puntato sulla gamba e la mano posata sul petto, le gambe accavallate,  con il piede destro su un leggero rialzo della base, mentre il sinistro è libero, come se la ragazza lo dondolasse per cullare i suoi giovani pensieri.
La costruzione della scultura è tale che girandogli intorno si ha sempre una visione diversa, il che suggerisce che anche in antico fosse stata concepita per una visone a 360 gradi. Il modello dal quale viene fatta dipendere è stato riconosciuto nella Tyche di Antiochia, vale a dire la personificazione stessa della città, realizzata da Eutychides, allievo di Lisippo, all’inizio del III secolo a.C. Ma sicuramente qui siamo di fronte ad una evoluzione del modello: intimismo, fragilità, grazia, sono probabilmente caratteristiche aggiunte dall’abile copista romano, e sono proprio quelle a conferire alla scultura una modernità straordinaria.
Difficile staccarsi da questa immagine, si ha come la sensazione che sia piacevole per l’animo stare lì a guardarla. Ma cerco in qualche modo di sottrarre alla malìa di quella sirena di marmo i miei compagni. Provo a dire che, in realtà, la scoperta più notevole, fatta nello stesso contesto, è quella di due figure di magistrati. Faccio notare che uno dei due tiene in mano un lembo di stoffa, la mappa, e quindi è rappresentato nel momento in cui sta dando l’avvio alle gare nel circo, uno degli incarichi di maggiore visibilità per un politico dell’epoca.
I ritratti sono di altissimo livello artistico e rivelano anche un attento studio fisiognomico. Stilisticamente le statue rimandano ad un periodo a cavallo tra IV e V secolo d.C., e nei due personaggi raffigurati si sono voluti riconoscere padre e figlio. Queste indicazioni hanno portato a suggerire i nomi di Q. Aurelio Symmachus, prefetto della città nel 384-385, e di suo figlio, famosissimi rappresentanti dell’aristocrazia senatoria romana, di stretta osservanza pagana, raffigurati entrambi all’apice della loro carriera senatoria. Danilo mi guarda. E’ incredulo e sfinito. Le emozioni lo hanno strapazzato per bene. Si è fatto anche tardi. Lo stomaco con i suoi borbottii ci informa che sarebbe anche ora di riempirlo. E’ sempre così. L’ultima parte del museo si fa a passo di bersaglieri.
Sfilano davanti a noi le due statue di Pothos, personificazione del rimpianto e del senso di nostalgia che si prova quando una persona amata è lontana. Rinvenute in via Cavour, sono entrambe copie dello stesso originale creato da Skopas per un gruppo in cui figuravano con mamma Afrodite ed altri divini fratelli.
Insieme ad esse fu rinvenuta la statua del Satiro in riposo, copia di un originale di Prassitele, e quella di un generale romano, purtroppo acefala, rappresentato in nudità eroica. I Romani facevano così: per esaltare le virtù del personaggio raffigurato, prendevano in prestito dall’arte greca le forme atletiche degli antichi eroi del mito e sopra quei corpi scolpiti piazzavano i ritratti dei duri soldati romani. Una sorta di “photoshop” nel marmo! Drammatico il Satiro della domus  di Porta San Lorenzo.
Faceva parte di un pregevole gruppo di ispirazione pergamena, rappresentante Satiri in lotta contro i Giganti. Reso con una straordinaria forza espressiva, è rappresentato nel momento in cui sta per essere sopraffatto dalle spire serpentine di un gigante che si trova alle sue spalle. Improvvisa e inaspettata, come una folgore a ciel sereno, una voce stridula e divertita interrompe la mia spiegazione: “Oh, guardate questo!”  Immagino che qualcuno sia arrivato alle sculture della domus  di Fulvio Plauziano, prefetto del pretorio di Settimio Severo, ucciso da Caracalla nel 205 d.C. 
La proprietà della casa fu attribuita grazie alle iscrizioni leggibili sulle fistulae acquariae, rinvenute insieme ad altre strutture durante i lavori per il traforo del Quirinale, nei primissimi anni del Novecento. In uno dei suoi ambienti, fu recuperata una suggestiva statua di Priapo,databile all’età augustea. Era questa l’attrazione per la quale poco prima eravamo stati chiamati a raccolta. Priapo non è rappresentato nella sua iconografia tradizionale, itifallico, come si suol dire. La sua ben nota ed esplosiva virilità viene però lasciata intuire. L’artista lo ha infatti coperto con una lunga tunica, che presenta però, proprio all’altezza del bacino, una cospicua sporgenza, dalla forma inequivocabile. Eccoli lì, tutti intorno a quell’anomalo drappeggio, con le loro faccine maliziose, a scattar foto. E purtroppo so che non finisce qui. Di sicuro, infatti, non può passare inosservato il gruppo con Satiro e Ninfa, che decorava una residenza privata scoperta a Trastevere, nei pressi della Chiesa di San Crisogono.
Il Satiro ha braccato la ninfa. Con una mano le blocca la spalla, con l’altra le cinge la vita. Lei cerca di difendersi: con il braccio destro allontana la testa del satiro mentre gli tira i capelli. “Oh , questa non ce vo’ proprio sta!’” – sentenzia con un sorrisetto Danilo, che intanto sta girando pericolosamente intorno alla scultura, per cogliere la prospettiva migliore. 
“Fa che non se ne accorga…” – sussurro con un filo di voce. “Oh, ma qui c’è la sorpresa!”. Se n’è accorto! I satiri, si sa, hanno un’insaziabile libido e sono sempre pronti ad accoppiarsi, in maniera più o meno ortodossa. Anche il nostro satirello mostra tutta la sua eccitazione e anche la voglia di percorrere  inusitate vie del piacere. C’ha ragione la ninfa a voler scappar via!
Dopo che tutti hanno “scannerizzato” la scultura , al suono di battute e sorrisetti, si riprende lo schieramento “a fanfara” per sfilare di corsa di fronte alle ultime opere che ancora mancano all’appello. Sono quelle rinvenute in ambito funerario, testimoni degli ideali di vita del defunto e della pietas dei familiari. Are, cippi sepolcrali, urne di marmo per le ceneri, ritratti. C’è il calzolaio che si è fatto ritrarre in un busto nudo, sormontato dalla raffigurazione di due forme per calzature, simbolo “parlante” della sua attività lavorativa.
C’è la commovente ara funeraria di un giovanissimo poeta, morto a soli 11 anni, dopo avere vinto il certamen capitolino, con un poemetto greco in esametri, ispirato al mito di Fetonte. I genitori hanno voluto che il testo dell’intero componimento poetico fosse trascritto sul monumento funebre, ai lati della nicchia centrale che contiene la statua del giovane e talentuoso figlio.
“Che ora s’è fatta?!” – domando. Non è necessario attendere la risposta, basta l’incrocio dei nostri sguardi. Tutti a Pranzo! Di corsa a ritroso ripercorriamo il cammino già fatto, passando di nuovo in rapida rassegna tutti quei volti di marmo che ormai ci sono familiari. Fuori un’aria gradevole, che sa già di primavera, ci accoglie. Dal piazzale mi volto un’ultima volta verso la facciata della Centrale. Al di là delle vetrate del secondo piano, scorgo il volto perfetto di Antinoo e, di fronte a lui, in penombra, la sagoma di Icaro, che sembrano proprio avercela con me: “Ma torni vero?!”. Ci potete giurare su tutti gli dei dell’Olimpo!



Epilogo
Giunti al ristorante scopro, con rammarico, di aver perso uno dei miei orecchini. Non era di grande valore ma c’ero legata per motivi affettivi. Chissà dove mi era caduto. Avevamo fatto un bel tratto di strada. Impossibile ritornare a cercarlo. Due giorni dopo mi arriva una email di Danilo. Mi scrive che sta selezionando le mie foto e che a breve mi manderà tutto il servizio. Al messaggio allega uno scatto. Ritrae me in una sala del museo, tra due altari di tufo. Nel commento Danilo mi dice di guardare bene sul pavimento, vicino al mio piede destro.
NO!...non è possibile! Ma è il mio orecchino quello! Chiamo subito il Museo. Mi risponde la ragazza della biglietteria, gentilissima. Gli spiego la situazione e le chiedo se può informarsi se durante le pulizie qualcuno lo ha ritrovato. Le lascio il mio numero di telefono. Dopo cinque minuti ecco che squilla. E’ lei: “Il suo orecchino è qui, quando vuole passi a riprenderlo”. Le cose che veramente ci appartengono, non si perdono mai.