E’ una splendida giornata di sole, anche
se siamo ancora a febbraio. La campagna
romana, in avvicinamento alla città, brilla di luce e scorre via rapida dal
finestrino del treno. I raggi mi baciano con il loro calore ed io regalo loro
un sorriso. Mi sembra il minimo. Oggi sarà una giornata speciale. Lo sono un
po’ tutte quelle che trascorro a Roma, ma la destinazione odierna mi riempie di
entusiasmo ed eccitazione. Ho un gruppo da accompagnare al quartiere Ostiense,
ai Musei Capitolini. Ai Musei Capitolini?!
Ma non stanno sul Campidoglio?! Non tutti! Sulla via Ostiense, poco
oltre la Piramide Cestia e la Porta San Paolo, si trova l’ex Centrale
Termoelettrica Giovanni Montemartini. E che c’entra?! Tempo al tempo.
La storia
che ci interessa ha inizio nel 1997, quando per consentire lavori di
ristrutturazione di ampi settori del complesso capitolino, numerose sculture e
molti altri reperti archeologici dovettero migrare dalle loro stanze e
saloni. Per non sottrarre al pubblico
queste meraviglie, venne allestita una grande mostra, che si decise di ospitare
all’interno del primo impianto pubblico di energia elettrica della Capitale: la
Centrale Montemartini, appunto. Il fascino esercitato da questa sede e dalla
maestosità dei suoi ambienti, così adatti ad accogliere opere monumentali e
ricostruzioni architettoniche di antichi edifici, fu più forte della preoccupazione di accostare tra loro due mondi così
diversi: l’archeologia e l’archeologia industriale. L’obiettivo era troppo
invitante. In un sol colpo si poteva ridare vita, anche se con una nuova
funzione, all’antica centrale e presentare al pubblico le sculture rimaste temporaneamente
senza fissa dimora. L’interesse dei visitatori e degli addetti ai lavori, attratti da questo
accostamento ardito, decretarono il grande successo del nuovo spazio
espositivo, che da esperimento passò così a sede permanente per le collezioni
di più recente acquisizione dei Musei Capitolini.
Mentre ripercorro nella mente
queste tappe storiche dell’allestimento, quasi una sorta di ripasso per quello
che dovrò poi raccontare ai miei uditori, ecco che lo speaker annuncia l’arrivo
del treno alla Stazione Ostiense, scusandosi per il solito ritardo. Guardo
l’orario. Il mio gruppo dovrebbe già essere fuori della Centrale ad aspettarmi.
Mi incammino con passo sostenuto. A molti non piace questa parte di Roma. Io la
trovo molto suggestiva. E’ un particolare paesaggio urbano, quasi sconosciuto
anche alla maggior parte dei romani, caratterizzato dalla maestosità dei
Gazometri e dal grande “cobra d’ acciaio”, il modernissimo ponte che unisce
Ostiense alla Garbatella. Pochi lo sanno ma l’ardito manufatto è stato
intitolato a Settimia Spizzichino, l’unica sopravvissuta ai rastrellamenti del
Ghetto e alla conseguente prigionia nel campo di Auschwitz.
Un vero “ponte” tra
passato e futuro, insomma. Con la mente impegnata in queste riflessioni giungo
alla mia destinazione, sorpresa di aver trovato la strada senza neppure
un’inversione di marcia o una strategica richiesta d’aiuto al primo passante.
Che io mi perda ovunque è tristemente noto. Credo che il mestiere di guida mi
sia toccato per la ben nota legge del contrappasso.
Ecco il mio gruppo. Alzo la
mano per un saluto. Mi rispondono. Ci siamo riconosciuti. Li raggiungo. Mi
presento. C’è un signore, con tanti ricci in testa ed un sorriso contagioso,
che scatta già foto a raffica. “E’ il mio uomo, non mi scappa!” – mi dico tra
me e me soddisfatta. “Buongiorno! Lei come si chiama?”. “Danilo” – mi risponde.
“Piacere, Danilo. Lei dovrebbe farmi un grande favore…". Spiego a Danilo
che da poco ho un mio blog, dove cerco di raccontare, a chi ha voglia di
ascoltarmi, le bellezze storico-artistiche in cui ho la fortuna di imbattermi esercitando
la mia professione. Il mio interlocutore ascolta interessato. Avrei bisogno che
ogni tanto lui mi scattasse qualche foto, perché l’idea di fondo sarebbe quella
di uscire da una spersonalizzata spiegazione dei siti per coinvolgere chi legge
nella “mia” personale esperienza di visita. Danilo ha capito e annuisce con un
sorriso. Bene, si parte!
Entriamo nel
cortile della Centrale che ci appare all’improvviso con l’eleganza imponente
delle sua facciata liberty e le sue grandi vetrate che gli conferiscono una
certa leggerezza, se non altro per via di quel cielo azzurro che vi si riflette.
Non sembra una centrale termoelettrica, si direbbe piuttosto un bel palazzetto
residenziale degli inizi del Novecento. Mi piazzo sotto uno dei lampioni che
decorano lo spazio esterno e inizio la mia introduzione storica al contesto.
La
Centrale Termoelettrica Giovanni Montemartini di Roma venne inaugurata il 30
giugno del 1912. Fin da quando era stata elaborata l’idea di creare un’azienda
municipale di produzione di energia elettrica, si era pensato alla costruzione
di una centrale che, come era solito allora, funzionasse con turbine a vapore e
relative caldaie. Alla fine però si decise per un sistema di produzione misto
diesel-vapore. Progettata fin dal principio come impianto di “riserva”, in
realtà poi fornì per un lungo periodo un servizio continuo, garantito dall’uso
delle turbine a vapore, più adatte a svolgere un lavoro continuato nel tempo,
mentre ai diesel venne affidata la produzione nelle ore di “punta”.
Bla…bla…bla…
Questa parte annoia anche me e quindi taglio corto. A una cosa ci
tengo però: i lampioni! Non mi sono mica piazzata lì sotto solo per sentire le
inevitabili e ironiche battutine del mio pubblico. Si tratta di due “fanali”
storici, ritrovati smontati nei depositi dell’Acea. Facevano parte di un gruppo
di sei, fusi alla fine dell’Ottocento, dalla illustre fonderia del Pignone di
Firenze. A cosa serve una guida se non a focalizzare l’attenzione dei
visitatori sui dettagli che altrimenti verrebbero trascurati?!
In origine erano
stati progettati per sostenere i cavi per l’alimentazione elettrica delle linee
del tram. In seguito furono utilizzati per l’illuminazione elettrica del centro
della città. Faccio notare la raffinata decorazione. Alla base ci sono quattro
teste di lupa che reggono festoni tra le fauci, sopra le quali viene messo in
scena il Trionfo dell’Elettricità. No, non sto scherzando! E’ rappresentato da
un giro di quattro fanciulle nude danzanti, i cui capelli terminano in acuminati
raggi elettrici. Dal mio gruppo di uditori, ormai perso nella danza di quelle “elettrizzate”
ninfe, si alza una voce: “Te la faccio una foto sotto il lampione?!” “Tu che
dici, Danì?!” Click!
Finalmente stiamo
per entrare. Dalle grande vetrate volti di marmo sembrano sbirciare incuriositi
il nostro ingresso. Ogni volta che ne intravedo uno e i nostri sguardi si
incrociano un brivido mi attraversa. Ho
come l’impressione che mi riconoscano e immagino la loro domanda. “Si, sono
tornata…” – gli rispondo.
Il primo impatto con la centrale può essere
destabilizzante. La prima cosa che ti colpisce è quell’odore forte di ghisa e
di combustione, è un’esperienza olfattiva forte, molto evocativa. Si ha la
sensazione che da un momento all’altro tutto debba mettersi in moto e tornare a
funzionare. Anche l’ambiente è così diverso dai contesti museali a cui siamo
abituati. Ma so per esperienza che questo primo impatto frastornante lascerà il
posto allo stupore e alla meraviglia.
Le opere qui esposte sono le ultime
acquisite dai Musei Capitolini. Molte sono state recuperate a seguito dei
lavori edilizi per Roma Capitale, avviati subito dopo il 1870, effettuati in
quelle zone dove si andavano costruendo i quartieri residenziali riservati alla
classe di “ministeriali” che sarebbe di lì’ a poco affluita a Roma. Altrettanto numerosi furono i ritrovamenti
emersi durante i grandiosi lavori urbanistici degli anni trenta del Novecento,
che interessarono le zone più importanti del centro monumentale antico.
L’eccezionalità del museo, oltre i materiali, riguarda anche i criteri
espositivi.
Si è preferito privilegiare
la ricostruzione dei contesti originari di rinvenimento, piuttosto che
fare un’esposizione per generi. Mi spiego meglio. Spesso, visitando un museo di
arte antica, ci si trova in mezzo ad un popolo di statue, disposto per “figure simili”.
Il criterio è quello dell’arca di Noè. Tutte le amazzoni ferite a destra, i
discoboli e sinistra, in lato i filosofi e a seguire gli imperatori. L’effetto generale è fuorviante, perché le
sculture non parlano la stessa lingua, sono state realizzate in epoche diverse,
funzionali alla decorazione di svariati monumenti e poi accostate tra loro nel
museo, avendo come elemento unificante il modello greco al quale si rifanno.
Non così alla Centrale, dove si è cercato di ricostruire i complessi perduti e
di ridare unità al molteplice. Ora entriamo nella prima sala del piano terra.
In origine serviva per raccogliere, attraverso una serie di tramogge poste sul
soffitto, i residui della combustione del carbone. I pilastri che servivano a
sostenere le caldaie, poste al piano superiore, sono stati inglobati in quinte
continue, per cui questo ambiente è quello che meno somiglia ad un impianto
industriale.
Nel primo settore è raccolta una preziosa documentazione afferente
la sfera religiosa e funeraria. La maggior parte dei reperti proviene
dall’Esquilino e, precisamente, dal più grande e antico sepolcreto della città,
con testimonianze già dalla fine del IX sec. a.C, e che continuò ad essere
utilizzato fino alla tarda età repubblicana. Sarcofagi, urne cinerarie, rilievi, dipinti provenienti
da vari monumenti sepolcrali si dispongono intorno a noi. Qua e là mi soffermo
per dare qualche spiegazione. Danilo cerca il mio sguardo per cogliere un mio
cenno di assenso e intervenire così con uno scatto. Gli faccio segno di
lasciare andare.
Entriamo ora in un ambiente che suscita sempre un certo
stupore, del resto gli arredi che contiene furono concepiti proprio per
generare questo tipo di reazione. Uno degli esemplari più belli qui esposti,
degno rappresentante di quella che i Romani definirono luxuria, è un letto,
ovviamente ricostruito nella sua parte lignea, scoperto in una tomba di
Amiterno in Abruzzo. Ha due spalliere, come si addice ad un letto da parata, ed
è rivestito da lamine di bronzo, che sul telaio sono decorate con la tecnica ad
agemina, una minuta connessione a intarsio di laminette di argento e di rame
sulla superficie di bronzo, che conferisce delicati effetti di luce e colore. Mentre
mi dedico alla spiegazione, sono distratta dalle contorsioni di Danilo, che sta
tentando non so quale straordinario effetto tra il vetro, il letto e me. Che
dio ce la mandi buona!
Mentre mi attardo in pose suggestive, gli altri hanno
già raggiunto la “lettiga capitolina”. Mi dispiace sempre smorzare gli
entusiasmi, raccontando che si tratta in realtà di un pastiche. Così si chiama l’assemblaggio di vari manufatti non concepiti in origine per stare insieme. In questo
caso il montaggio ottocentesco di decorazioni, pertinenti ad un letto da
triclinio, ad un carro e ad una cassa, fu opera di uno dei più gradi antiquari
dell’epoca, Augusto Castellani. Già ripreso dalla delusione, il gruppo mi sta
tirando verso il meraviglioso mosaico che decora la parete di fondo.
Proviene
da una ricca casa, scoperta in via Panisperna, e in sintonia con l’ambiente in
cui è stato trovato, caratterizzato da una grande vasca centrale, raffigura un
variopinto paesaggio marino, riprodotto con impressionante fedeltà realistica,
degna di un grande conoscitore della fauna ittica. Entriamo ora nella galleria
dei ritratti e passiamo in mezzo ad una folla di volti che decoravano in
origine l’interno delle case o l’ingresso delle tombe. Schiavi affrancati,
orgogliosi della loro cittadinanza romana, esponenti della borghesia, che volevano
ostentare il loro prestigio sociale, si facevano ritrarre per desiderio di
autorappresentazione.
Ecco la “sciura”
del rilievo di Via Statilia, databile verso la metà del I sec. a.C., ricoperta
di gioielli e con il volto incorniciato da un’artificiosa acconciatura con i
riccioli che le scendono sulla fronte e sulle guance, a fianco del compassato
marito, piuttosto attempato, a giudicare dalle rughe che gli solcano il viso.
Seguono i ritratti di sei esponenti di una stessa famiglia, in un rilievo
funerario dell’inizio dell’età augustea. Faccio notare alle signore che
l’anziana donna è pettinata secondo la moda instaurata da Livia, moglie di
Augusto. Danilo sta scattando a raffica, azzardo anche qualche tentativo di
posa, avvicinandomi alle sculture.
La custode ci ha puntato. Ormai hanno un
sesto senso per individuare i visitatori potenzialmente pericolosi.
All’improvviso parte l’allarme. Diana efesina, fa che non siamo stati noi!
Alcuni ragazzi di una scolaresca hanno inavvertitamente superato un cordone di
sicurezza nell’altra stanza. Il cerbero si allontana di corsa.
Quando ritorna
gli lancio uno sguardo di sufficienza: “Hai visto?! C’è di peggio!” Ormai posso anche compromettermi, basta con sorrisetti
e panegirici sulla professione del custode, tanto tra poco lasciamo il primo
piano. Mi trattengo giusto il tempo di presentare la star del corridoio, il
cosiddetto “Togato Barberini”.
E’ fieramente ammantato dalla toga, simbolo della
cittadinanza romana, imposta da Augusto come “divisa” da indossare a teatro e
nelle occasioni ufficiali. Sostiene le immagini degli antenati, il padre a
sinistra e il nonno a destra. L’uso di far eseguire le immagini in cera degli
antenati (mos maiorum) era una
consuetudine riservata solo alle famiglie aristocratiche, che le conservavano
nell’atrio della casa e le “indossavano” in occasione di ricorrenze
particolari, sia pubbliche che private. Finalmente si ascende. Dal piano terra
una scala conduce alla Sala Macchine, indubbiamente la più bella e
scenografica, vero centro monumentale del complesso. Mentre salgo sento dietro
di me un annaspante fiato sul collo. Mi giro. E’ Danilo. “Danilo, anche mentre
salgo le scale?!” Non mi risponde, ma fa una faccetta birbantella, come a dire:
“ L’hai voluta la bicicletta?!”
Siamo in cima alla scala. E’ sempre emozionante
sentire le esclamazioni di stupore di chi discopre per la prima volta questo
fantastico scenario ed i commenti eccitati ed entusiasti che seguono. Da quassù
si può ammirare la sala in tutto il suo splendore. Al centro è stata creata una
lunga navata che corre parallela alle macchine. Statue di un bianco candido si
stagliano contro il metallo scuro dei giganteschi motori diesel e della turbina
a vapore, in un gioco netto ed affascinante di contrasti.
Sui lati corti del
corridoio la grande statua della Minerva fronteggia i resti della decorazione
frontonale del tempio di Apollo Sosiano. Uno spettacolo straordinario di
macchine e dei. Dobbiamo ridiscendere qualche gradino per guadagnare il livello
della sala. Tutti si precipitano ammaliati da quello scenario che li attrae
ormai come una calamita. “Danì!” – apostrofo il mio fedele scudiero che sta
scendendo con gli altri – “Se non qui, dove?!” Torna indietro con l’aria di chi
è stato colto in fallo e per farsi perdonare, con aria ammiccante, butta lì un
complimento: “Certo che lo sfondo rovina
tutta la bellezza!”
Scesi nella grande
sala, ci troviamo circondati su entrambi i lati da una galleria di statue,
ispirate ai più famosi originali dell’arte greca. L’attenzione è catturata ora dalla scura parete delle
macchine, con i loro meccanismi di manovra, ora dalle sagome delicate delle
sculture antiche: l’essere e il divenire, l’immobilità ed il movimento,
l’antico e il moderno, il bianco e il nero, si contrappongono e si compenetrano.
Meraviglia degli opposti!
Dall’alto domina lo scenario l’immagine colossale di
Atena. Proveniente da un lungo porticato che fiancheggiava la Via Lata,
corrispondente all’attuale via del Corso, fu realizzata in un unico blocco di
marmo greco, proveniente dall’isola di Taso, usato di frequente per opere di
grandi dimensioni, grazie alla solidità conferita da rare venature di cava.
Passiamo
incantati tra uno stuolo di dei, li presento solo con il loro nome per non
rompere il silenzio e la magica atmosfera che si sono create: l’Atena Parthenos, l’Atena Lemnia, Eracle, Dioniso,
Afrodite, una statua colossale di Apollo che suona la cetra. E questa che ci fa
qui?! Oh, sempre in mezzo Cleopatra!
Raffinata ed elegante la statua vestita di
peplo, rinvenuta sulla Via Labicana. Alla sua immagine candida ed eterea fa da
quinta scenografica uno dei possenti motori diesel, con un’invitante quadro di
manovra: non si può resistere, è una delle foto più inflazionate del
museo. “Paola, Paola!” - qualcuno mi
chiama. Le avanguardie hanno individuato qualcosa di eccezionale e vogliono
saperne di più. E te pareva?! Lo sapevo
che ce l’avevano con lei. “E’ nota come la statua dell’Orante” - esordisco – “è
realizzata in basanite, una strana e preziosa pietra di colore nero-verdastro,
proveniente dal deserto egiziano”.
L’incipit piace molto, anche perché tutti
gli aggettivi che ho usato convalidano l’eccezionalità dell’opera. Gli
“scopritori” ora si guardano tra loro compiaciuti e soddisfatti. Questa
scultura di grande qualità artistica fu
scoperta sul Celio alla fine dell’Ottocento. Si data alla prima metà del I sec.
d.C. e si inserisce nell’ambito di una serie di sculture dedicate alle donne
della famiglia imperiale. L’opera, ridotta in frantumi, fu rinvenuta
all’interno di una muratura tardo-antica, dove era stata utilizzata come
materiale da costruzione, secondo una consuetudine frequentemente attestata a
Roma. Chi rappresenta questa figura? Guardo i volti che mi circondano, tanti
vispi occhietti brillano di curiosità. Anche Danilo, macchina fotografica ciondolante
al collo e mani in tasca, sembra interessato alla spiegazione. Nell’Orante,
spiego, è stato riconosciuto un ritratto di Agrippina Minore, moglie
dell’imperatore Claudio e madre di Nerone. La statua fu rinvenuta priva di
testa, ma grazie ad alcuni studi fu proposta la pertinenza alla figura di un
ritratto di Agrippina Minore conservato alla Gliptoteca di Copenaghen,
acquistato nel 1887 sul mercato antiquario romano, quindi più o meno negli
stessi anni in cui si realizzavano gli scavi per la costruzione dell’Ospedale
Militare del Celio. “Qualcuno se l’è rubata!” - commenta una voce che si leva
dal gruppo. Possibile. L’identificazione del personaggio sembrerebbe avvalorata
anche dal luogo del ritrovamento, il Celio, in una zona non molto lontana dal
Tempio del Divo Claudio, dove Agrippina aveva voluto quindi comparire in
atteggiamento assorto e mistico davanti al marito divinizzato, nel luogo di
culto che essa stessa aveva dedicato alla sua memoria. Curiosa la sua devozione
se si pensa che secondo gli scrittori di corte, sarebbe stata proprio lei ad
avvelenare il marito con un piatto di funghi!
Insieme all’Orante, nello stesso
muro, e spezzata in 151 frammenti, fu rinvenuta un’altra splendida scultura di
bigio antico, nota come Vittoria dei Simmaci. Mi sto avvicinando a quest’opera
quando vengo apostrofata da una voce ormai familiare. “E qui, con la vedova
allegra, non la facciamo una bella foto?!”. Meno male che c’è Danilo! Dopo
qualche foto intorno ad Agrippina instrado il gruppo verso la cosiddetta
Vittoria dei Simmaci, già preannunciata. In realtà che si tratti proprio di una
Vittoria non è poi così scontato. Tutti ora hanno drizzato le orecchie.
L’argomento si fa interessante. Un elemento di non poca importanza per la sua identificazione
è l’impiego del marmo scuro per le vesti, con un intento che potrebbe non
essere solo coloristico e decorativo. Forse si voleva mettere anche in risalto
l’esoticità del materiale per sottolineare una caratteristica della divinità
raffigurata, per esempio la sua origine straniera, la sua diversità, che doveva
essere apprezzata a prima vista, per permetterne un riconoscimento immediato.
Forse non è così azzardato allora suggerire il nome di Iside, come è stato di
recente proposto, ricollegandosi ad un luogo di culto dedicato a questa
divinità e a Serapide, che si trovava proprio presso le pendici settentrionali
del Celio.
A questo punto tutta l’attenzione dei presenti è rivolta al fondo
della sala, dove domina, con i suoi 18 metri di lunghezza, la ricostruzione del
frontone del tempio di Apollo Sosiano. Salgo in cima alla scala, che consente
una visione ravvicinata delle sculture ed inizio l’ennesimo racconto. In una
zona extraurbana, denominata Prata
Flaminia, dove successivamente verrà edificato il Circo Flaminio, sorgeva
fin dal 431 a.C. un tempio dedicato ad Apollo Medico, in adempimento al voto
fatto in seguito a una terribile pestilenza che aveva decimato la popolazione
di Roma. Il tempio subì in seguito vari rifacimenti, fino a che non fu
interamente ricostruito da Gaio Sosio, trionfatore sul popolo giudaico nel 34 a.C.
Gli scavi condotti tra il 1926 ed il 1932, per l’isolamento del teatro di
Marcello, portarono alla luce una parte dei monumentali resti del tempio. Sul
podio vennero in seguito rialzate le tre colonne crollate verso il teatro di
Marcello, la trabeazione e la cornice, ma si scelse, per motivi estetici, di
posizionarle all’angolo opposto rispetto alla loro originaria collocazione. Il
gruppo scultoreo che decorava il timpano del tempio è da considerasi tra le
maggiori acquisizioni nell’ambito della scultura greca del V sec. a.C. Tutte le
statue si sono infatti rivelate preziosi originali greci, trasportati a Roma in età augustea. Ovviamente
do alla notizia tutta l’enfasi che merita.
La composizione, alla quale è stato
finora possibile attribuire nove sculture, rappresenta una Amazzonomachia,
ovvero una scena di battaglia tra Greci e Amazzoni. Al centro della scena
campeggia l’immagine di Atena, vestita di peplo attico, coperto sul petto
dall’egida.Tutte le sculture del gruppo frontonale erano in origine policrome.
Doveva contribuire inoltre all’ accentuazione dell’effetto coloristico
l’inserimento di elementi in bronzo, come le armi ed alcuni elementi decorativi
delle vesti e delle acconciature.
Danilo è ora troppo preso a fare scatti e
pure gli altri sono variamente affaccendati intorno alle sculture. Approfitto
di questa “ricreazione” per riposarmi un po’ e fare qualche bella foto anch’io.
Ma non possiamo perdere troppo tempo, siamo già in ritardo sulla tabella di
marcia. Mi sono ora posizionata in
prossimità di un singolare monumento circolare e chiamo tutti a raccolta. “Il
piccolo edificio circolare, che vedete alle mie spalle…” - esordisco con un timbro di voce alto e
impostato, per ottenere silenzio e attenzione - “..è databile alla prima età
Flavia, in base all’iscrizione con dedica di Vespasiano, leggibile su uno dei
frammenti”.
Ora che tutto il gruppo è di nuovo schierato di fronte a me posso
proseguire. Il monumento sorgeva
nell’esiguo spazio compreso tra il Tempio di Apollo Sosiano e il Teatro di
Marcello. La sua posizione, tangente all’anello esterno del teatro e in asse
con la fronte del Tempio di Apollo, era veramente singolare e può trovare una
giustificazione solo sulla base di un motivo religioso. Potrebbe trattarsi
della ricostruzione di un edificio di culto più antico, la cui sacralità era
tale da essere ritenuta inviolabile. Mi accorgo che mentre dico queste cose il tono
della mia voce si è fatto accattivante e suadente come quello di chi racconta
una favola. E mentre mi specchio in tutti quei volti che attendono il proseguo
della storia, sorrido dentro di me pensando a quanto sia delizioso quel piccolo
cerchio di bimbi incantati.
Mi interrompo per creare la giusta suspence e poi riprendo. Un’affascinante
ipotesi ne suggerisce l’identificazione con il celebre perrirhanterion , il bacino d’acqua lustrale posto davanti al
tempio di Apollo Medico dove, secondo le fonti letterarie, Catilina si lavò le
mani sporche di sangue dopo aver mostrato a Silla la testa di un avversario
politico, durante una riunione del Senato nel vicino Tempio di Bellona.
“Mettitici un po’ dentro!” Fulmino
Danilo con uno sguardo. Addio tensione drammatica! Prima di allontanarmi,
sottolineo come la strana posizione dell’edificio circolare sollevi un altro
ordine di problemi legato al percorso delle processioni trionfali che
prendevano avvio al Circo Flaminio. Si era ritenuto in passato che la via trionfale
procedesse lungo i templi di Apollo e di Bellona, ma la presenza di questo
piccolo monumento avrebbe ostruito totalmente il passaggio dell’imponente
corteo, affollato di truppe di legionari, prigionieri, animali delle specie più
svariate e carri colmi del bottino di guerra.
I miei uditori bloccano la
diaspora e si fermano per ascoltare la soluzione di questo mistero. Si dovrebbe
quindi concludere che la processione trionfale passasse attraverso le paradoi , o ingressi , del Teatro, e che
lo attraversasse, consentendo così ad un grande pubblico di spettatori di
assistere al trionfo in un contesto scenografico e spettacolare. A questo punto
passiamo rapidamente in rassegna le opere provenienti dall’area del
Campidoglio, cuore religioso della città, dove, per tutta l’epoca repubblicana,
le più alte personalità dello stato fecero a gare per erigere monumenti
celebrativi a ricordo delle loro imprese.
Seguono le sculture recuperate nell’area
sacra di Largo Argentina e nell’adiacente teatro di Pompeo, da cui proviene una
splendida statua di Musa seduta, che probabilmente ne decorava la scena.
Raggiungiamo così lo spazio di fronte alle grande vetrate della facciata. Qui, colpiti
dalla luce e messi in ulteriore risalto dal fondo scuro dei macchinari, si
trovano esposti i ritratti imperiali di Villa Rivaldi. E’ uno dei miei spazi
preferiti.
Ci sono un paio di “amici” che devo assolutamente salutare. Prima
presento il contesto di rinvenimento e la loro storia. Bisogna dare un’ anima
alle cose per farle amare. Tutto ebbe inizio con l’apertura di via dell’Impero,
che permise la scoperta di una grandiosa residenza che si pone ai confini tra
il pubblico ed il privato, situata proprio in corrispondenza del giardino di
Villa Rivaldi.
L’impianto originario
della domus risale alla metà del I sec.
d.C., mentre ad una importante fase di vita dell’edificio, tra la metà del II e
la prima metà del III sec. d.C., si riferisce gran parte delle opere. Quelle
qui esposte erano state utilizzate come materiale da costruzione nei muretti
del giardino della villa. “Ma vi rendete conto?!” Tutti annuiscono. Chissà se mi stanno
ascoltando davvero. La bellezza di queste sculture è tale che sicuramente
distrae l’attenzione.
Scoperte in frammenti, negli anni trenta del
Novecento, finirono in Campidoglio. Un’intera galleria di illustri personaggi, imperatori
e consorti, sfila davanti a noi, a testimonianza del prestigio e del ruolo
politico del padrone di casa: Lucilla, Caracalla, Settimio Severo, Otacilia Severa.
Accanto a questi, come documento della
raffinata sensibilità artistica del committente, sono state rinvenute splendide
copie e rielaborazioni romane derivanti da famosi originali greci: la
bellissima testa di Apollo tipo Kassel, da un originale di Fidia, il giovane atleta
Kyniskos, da un originale di Policleto, la statua di Icaro, anch’essa ispirata
a modelli policletei e quella di Antinoo, il giovane favorito dell’imperatore
Adriano. A questi ultimi due va la mia indiscussa palma di più belli del reame!
Ma non tutti sembrano d’accordo. Ognuno sta individuando il proprio ideale di
bellezza, non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Danilo sembra in preda ad una
sorta di sindrome “scattoconvulsiva”. “Calma, mica ti scappano!” Ha capito che
ho una specie di venerazione per il giovane amante di Adriano. “Mettiti un po’ più vicina” - mi fa - “Guardalo con occhioni dolci e
ammicca”. A questo punto capisco che la
situazione mi sta drammaticamente sfuggendo di mano. “Vieni qua, davanti alla
finestra. Chi è questo?!” Legge il cartellino. “Ah, sei Icaro! Devi sta’ un po’
più attento quando prendi il sole!"
"Qui di lato, Paola. Un controluce stupendo!”
E adesso come ne esco?! “Ma a che ora
avete prenotato il pranzo?” E’ una
specie di formula magica che funziona sempre. Tutti guardano l’orologio. “Tra
un’ora dobbiamo stare al ristorante” – mi risponde una gentile signora. Quelle parole sembrano aver riportato in sé
anche Danilo, che dopo un paio di altri scatti finalmente mi libera.
Lo spazio
dell’ultima sala è meno invaso dal volume delle macchine, anche se una caldaia
di circa quindici metri di altezza impone in modo vistoso la sua presenza. Ma
ormai, come previsto, tutti sono abituati all’anomala convivenza, e tutto
sembra naturale, esattamente come dovrebbe essere.
Lo spazio più libero ha reso
possibile l’organizzazione di un allestimento più articolato e giocato intorno
all’enorme mosaico degli horti
Liciniani, che un ballatoio permette di osservare dall’alto in tutta la sua
estensione. Rappresenta la cattura di animali selvatici per le venationes dell’anfiteatro.
Attorno ad
esso l’allestimento dispone gli elementi
tipici della villa romana: il porticato, l’esedra e le numerose nicchie che accolgono le statue e
segnano il percorso espositivo. In questo grande spazio si è tentato, con successo,
di restituire ai visitatori gli aspetti connessi alla vita privata, attraverso
la ricostruzione dell’apparato decorativo di grandi residenze gentilizie, poi
passate nella proprietà privata dell’imperatore, come gli horti Sallustiani sul Quirinale e i Liciniani sull’Esquilino.
Non meno interessanti sono le sculture
che decoravano alcune domus private di
età imperiale e che riflettono il gusto del padrone di casa, spesso un fine
conoscitore dell’arte antica. All’ingresso ci accoglie un raffinatissimo pezzo
di arredo da giardino. Si tratta di una
grande tazza marmorea, decorata con un prezioso intaglio di girali di acanto
accostati a tralci di vite e grappoli di
uva, chiari riferimenti al mondo dionisiaco, eseguita da un abilissimo
scultore, probabilmente di origine greca.
Anche se comincia ad essere un po’
stanco, il mio fedele scudiero non si sottrae al suo ruolo, e, impugnata la
macchina fotografica: “Paola, un sorriso!”. Poco di lato ecco la splendida
figura di Polimnia, la delicata fanciulla che con aria sognante contempla un
lontano orizzonte, fatto di vagheggiamenti poetici che la portano al di fuori della realtà. Come la capisco! La
statua era stata scolpita per gli Horti
Spei Veteris. “Gli orti di che?!” –chiede qualcuno. “Horti della Speranza Antica” –spiego. Si
estendevano dalla zona corrispondente all’odierno piazzale di Porta
Maggiore,fino all’estremità sud-orientale della città.
Un ampio possedimento
che l’imperatore Settimio Severo trasformò in giardino, quando progettò il suo palazzo
residenziale con annesso anfiteatro di corte e circo. Elagabalo completò i
lavori e sotto di lui la nuova residenza imperiale assunse un lusso ed uno sfarzo
inusitati, sicuramente la cornice più appropriata per la natura capricciosa di
questo imperatore. Nel 270 d.C. la residenza perse il suo originario splendore a causa della
costruzione delle Mura Aureliane che divisero a metà il complesso, lasciando
fuori il circo e trasformando l’anfiteatro in struttura difensiva. Agli inizi del
Novecento, durante i lavori per la costruzione di alcuni edifici residenziali, in
questo contesto, fu rinvenuto un vero e proprio “tesoro”.
Si scoprì che in un
cunicolo sotterraneo, erano stati nascosti un gruzzolo di monete ed alcune
sculture, tra cui la suggestiva Polimnia. Straordinaria la conservazione della patina
originaria del marmo, che rende la pietra calda e quasi viva. Danilo gli sta girando
intorno, manco si trattasse di una modella a cui fare un book! “Bèh?! Devo
essere gelosa?!” – gli faccio con espressione risentita.
Intanto mi avvicino ad
un altro momento artistico straordinario, di quelli che ti lasciano senza
parole, ma dovrò trovarle. La prendo alla lontana, tanto stanno tutti lì a
bocca aperta, impietriti da quella sinuosa pietra. Intorno alla metà del III
secolo d.C. l’imperatore Licinio Gallieno fece costruire una sontuosa residenza
sull’Esquilino,dove era uso recarsi con tutta la sua corte. Là ,dove sorgeva
la villa, si trova ancora oggi uno
straordinario monumento, dalla complessa pianta polilobata, impropriamente conosciuto
come Tempio di Minerva Medica. Probabilmente si tratta invece di un ninfeo
monumentale appartenente alla villa stessa , all’interno del quale, durante gli
scavi ottocenteschi, fu rinvenuto un notevole gruppo di sculture fatte a pezzi
e riutilizzate per la costruzione di un muro più tardo.
Proprio qui fu
ritrovata la splendida fanciulla, che, mentre parlo, ci sta incantando con la
sua bellezza. E’ seduta su uno sgabello dalle zampe tornite, l’aspetto
pensieroso, poco più che una bambina, come denunciano i tratti sottili ben
disegnati e le guance paffute. La figura è raccolta su se stessa, il busto
inclinato in avanti, il braccio destro appoggiato all’orlo del sedile, il
sinistro piegato, con il gomito puntato sulla gamba e la mano posata sul petto,
le gambe accavallate, con il piede
destro su un leggero rialzo della base, mentre il sinistro è libero, come se la
ragazza lo dondolasse per cullare i suoi giovani pensieri.
La costruzione della
scultura è tale che girandogli intorno si ha sempre una visione diversa, il che
suggerisce che anche in antico fosse stata concepita per una visone a 360
gradi. Il modello dal quale viene fatta dipendere è stato riconosciuto nella Tyche di Antiochia, vale a dire la
personificazione stessa della città, realizzata da Eutychides, allievo di
Lisippo, all’inizio del III secolo a.C. Ma sicuramente qui siamo di fronte ad
una evoluzione del modello: intimismo, fragilità, grazia, sono probabilmente
caratteristiche aggiunte dall’abile copista romano, e sono proprio quelle a
conferire alla scultura una modernità straordinaria.
Difficile staccarsi da questa
immagine, si ha come la sensazione che sia piacevole per l’animo stare lì a
guardarla. Ma cerco in qualche modo di sottrarre alla malìa di quella sirena di
marmo i miei compagni. Provo a dire che, in realtà, la scoperta più notevole,
fatta nello stesso contesto, è quella di due figure di magistrati. Faccio
notare che uno dei due tiene in mano un lembo di stoffa, la mappa, e quindi è rappresentato nel momento in cui sta dando l’avvio
alle gare nel circo, uno degli incarichi di maggiore visibilità per un politico
dell’epoca.
I ritratti sono di altissimo livello artistico e rivelano anche un
attento studio fisiognomico. Stilisticamente le statue rimandano ad un periodo
a cavallo tra IV e V secolo d.C., e nei due personaggi raffigurati si sono
voluti riconoscere padre e figlio. Queste indicazioni hanno portato a suggerire
i nomi di Q. Aurelio Symmachus, prefetto della città nel 384-385, e di suo
figlio, famosissimi rappresentanti dell’aristocrazia senatoria romana, di
stretta osservanza pagana, raffigurati entrambi all’apice della loro carriera
senatoria. Danilo mi guarda. E’ incredulo e sfinito. Le emozioni lo hanno
strapazzato per bene. Si è fatto anche tardi. Lo stomaco con i suoi borbottii
ci informa che sarebbe anche ora di riempirlo. E’ sempre così. L’ultima parte
del museo si fa a passo di bersaglieri.
Sfilano davanti a noi le due statue di
Pothos, personificazione del rimpianto e del senso di nostalgia che si prova
quando una persona amata è lontana. Rinvenute in via Cavour, sono entrambe copie
dello stesso originale creato da Skopas per un gruppo in cui figuravano con
mamma Afrodite ed altri divini fratelli.
Insieme ad esse fu rinvenuta la statua
del Satiro in riposo, copia di un originale di Prassitele, e quella di un
generale romano, purtroppo acefala, rappresentato in nudità eroica. I Romani
facevano così: per esaltare le virtù del personaggio raffigurato, prendevano in
prestito dall’arte greca le forme atletiche degli antichi eroi del mito e sopra
quei corpi scolpiti piazzavano i ritratti dei duri soldati romani. Una sorta di
“photoshop” nel marmo! Drammatico il Satiro della domus di Porta San Lorenzo.
Faceva parte di un pregevole gruppo di ispirazione pergamena, rappresentante Satiri
in lotta contro i Giganti. Reso con una straordinaria forza espressiva, è
rappresentato nel momento in cui sta per essere sopraffatto dalle spire
serpentine di un gigante che si trova alle sue spalle. Improvvisa e inaspettata,
come una folgore a ciel sereno, una voce stridula e divertita interrompe la mia
spiegazione: “Oh, guardate questo!” Immagino
che qualcuno sia arrivato alle sculture della domus di Fulvio Plauziano,
prefetto del pretorio di Settimio Severo, ucciso da Caracalla nel 205 d.C.
La proprietà della casa fu attribuita grazie
alle iscrizioni leggibili sulle fistulae
acquariae, rinvenute insieme ad altre strutture durante i lavori per il
traforo del Quirinale, nei primissimi anni del Novecento. In uno dei suoi ambienti,
fu recuperata una suggestiva statua di Priapo,databile all’età augustea. Era questa
l’attrazione per la quale poco prima eravamo stati chiamati a raccolta. Priapo non
è rappresentato nella sua iconografia tradizionale, itifallico, come si suol
dire. La sua ben nota ed esplosiva virilità viene però lasciata intuire. L’artista
lo ha infatti coperto con una lunga tunica, che presenta però, proprio all’altezza
del bacino, una cospicua sporgenza, dalla forma inequivocabile. Eccoli lì,
tutti intorno a quell’anomalo drappeggio, con le loro faccine maliziose, a
scattar foto. E purtroppo so che non finisce qui. Di sicuro, infatti, non può
passare inosservato il gruppo con Satiro e Ninfa, che decorava una residenza
privata scoperta a Trastevere, nei pressi della Chiesa di San Crisogono.
Il
Satiro ha braccato la ninfa. Con una mano le blocca la spalla, con l’altra le
cinge la vita. Lei cerca di difendersi: con il braccio destro allontana la
testa del satiro mentre gli tira i capelli. “Oh , questa non ce vo’ proprio sta!’”
– sentenzia con un sorrisetto Danilo, che intanto sta girando pericolosamente
intorno alla scultura, per cogliere la prospettiva migliore.
“Fa che non se ne accorga…” – sussurro con un
filo di voce. “Oh, ma qui c’è la sorpresa!”. Se n’è accorto! I satiri, si sa,
hanno un’insaziabile libido e sono sempre pronti ad accoppiarsi, in maniera più
o meno ortodossa. Anche il nostro satirello mostra tutta la sua eccitazione e
anche la voglia di percorrere inusitate
vie del piacere. C’ha ragione la ninfa a voler scappar via!
Dopo che tutti
hanno “scannerizzato” la scultura , al suono di battute e sorrisetti, si
riprende lo schieramento “a fanfara” per sfilare di corsa di fronte alle ultime
opere che ancora mancano all’appello. Sono quelle rinvenute in ambito
funerario, testimoni degli ideali di vita del defunto e della pietas dei familiari. Are, cippi
sepolcrali, urne di marmo per le ceneri, ritratti. C’è il calzolaio che si è
fatto ritrarre in un busto nudo, sormontato dalla raffigurazione di due forme
per calzature, simbolo “parlante” della sua attività lavorativa.
C’è la
commovente ara funeraria di un giovanissimo poeta, morto a soli 11 anni, dopo
avere vinto il certamen capitolino,
con un poemetto greco in esametri, ispirato al mito di Fetonte. I genitori
hanno voluto che il testo dell’intero componimento poetico fosse trascritto sul
monumento funebre, ai lati della nicchia centrale che contiene la statua del
giovane e talentuoso figlio.
“Che ora s’è fatta?!” – domando. Non è necessario
attendere la risposta, basta l’incrocio dei nostri sguardi. Tutti a Pranzo! Di
corsa a ritroso ripercorriamo il cammino già fatto, passando di nuovo in rapida
rassegna tutti quei volti di marmo che ormai ci sono familiari. Fuori un’aria
gradevole, che sa già di primavera, ci accoglie. Dal piazzale mi volto un’ultima
volta verso la facciata della Centrale. Al di là delle vetrate del secondo
piano, scorgo il volto perfetto di Antinoo e, di fronte a lui, in penombra, la
sagoma di Icaro, che sembrano proprio avercela con me: “Ma torni vero?!”. Ci
potete giurare su tutti gli dei dell’Olimpo!
Epilogo
Giunti al ristorante scopro, con
rammarico, di aver perso uno dei miei orecchini. Non era di grande valore ma c’ero
legata per motivi affettivi. Chissà dove mi era caduto. Avevamo fatto un bel
tratto di strada. Impossibile ritornare a cercarlo. Due giorni dopo mi arriva
una email di Danilo. Mi scrive che sta selezionando le mie foto e che a breve
mi manderà tutto il servizio. Al messaggio allega uno scatto. Ritrae me in una
sala del museo, tra due altari di tufo. Nel commento Danilo mi dice di guardare
bene sul pavimento, vicino al mio piede destro.
NO!...non è possibile! Ma è il
mio orecchino quello! Chiamo subito il Museo. Mi risponde la ragazza della
biglietteria, gentilissima. Gli spiego la situazione e le chiedo se può informarsi
se durante le pulizie qualcuno lo ha ritrovato. Le lascio il mio numero di
telefono. Dopo cinque minuti ecco che squilla. E’ lei: “Il suo orecchino è qui,
quando vuole passi a riprenderlo”. Le cose che veramente ci appartengono, non
si perdono mai.